Quadri da un’esposizione. Conflitti tra cinema e pittura in 10 film

quadriIl cinema è la proiezione del mondo, ombra di una falsa memoria, particolare fuorviante, qui pro quo dell’oggetto. E nulla è più oggetto dell’oggetto d’arte, che vive solo nel momento in cui lo si vede, ossia facendolo oggetto della visione, che è poi la prassi del cinema.
È Béla Balázs ad aver scritto, nel suo celebre Il film, che «Gli oggetti d’arte – in quanto elementi di vita – possono trasformarsi in materia creativa dinanzi alla macchina da presa. La macchina ha in questo caso il tremendo compito di sovrapporre all’espressione già esistente dell’opera d’arte una nuova espressione: la commozione dell’osservatore». Il cinema come strumento privilegiato di commozione, dal Novecento fino a oggi, allora?
Eppure, in un certo senso, il cinema (e quella sua precisa capacità di commuovere) era già nei vetri dipinti della lanterna magica, ma ora, ritornando agli oggetti d’arte, e in particolare alla pittura, a dar credito a Plinio il vecchio (come ci ricorda Victor I. Stoichita, il cui Breve storia dell’ombra dovrebbe essere obbligatoria sin dalle scuole primarie, altro che i sussidiari di una volta!), il primo ritratto dipinto sarebbe nato, nel disegno compiuto da una donna, seguendo il profilo dell’ombra dell’amato, che l’indomani sarebbe partito per la guerra. Proiezione ortogonale di chi essendoci annuncia di non esserci più, la pittura nascerebbe, dunque, come traccia dell’assenza e della morte. Esercizio apotropaico, essa scongiura ed esorcizza l’estrema dipartita proprio nel segno fumoso della proiezione, nell’ornato incerto dell’ombra, con una prassi che, in seguito, sarà in sostanza quella del cinema. E il cinema, infatti, non è precisamente il racconto di ciò che non è più e la tensione verso ciò che non è ancora?

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La blaxploitation in 10 film

badass

La blaxploitation recava in sé qualcosa di ambiguo. Sembrerebbe essere stato un movimento cinematografico di rivalsa dei neri, mentre i due termini dalla cui fusione deriva (black e exploitation) ne svelano l’intima, ed oseremmo dire atavica, natura di “sfruttamento” dei “neri”. Forse fu entrambe le cose.  Nella maggior parte dei casi, infatti, si trattava di opere prodotte dalle major, dirette da bianchi, ma, e qui forse risiedeva la novità, per un pubblico di neri. Le figure che emergevano nei film blaxploitation non erano forse meno stereotipate di quelle della cinematografia del passato, ma di sicuro non erano quelle gradite ad un pubblico wasp. Dimenticate il coon (il buffone nero), il tom (da Zio Tom, il nero integrato nella società dei bianchi, come, nonostante le apparenze, sarà in fondo Sidney Poitier) e la mammy (la domestica, figura che pure valse un Oscar come non protagonista a Hattie McDonald la quale ne vestì i panni in Via col vento): i ’70 furono l’epoca della Trinità dello Spacciatore, del Pappa e della Pantera (come scrive Darius James nel suo imprescindibile That’s Blaxploitation!: Roots of the Baadasssss ‘Tude – Rated X by an All-Whyte Jury). Basta con gli “sbiancati” e a modo PoitierBelafonte, la blaxploitation, in quanto exploitation, insistette su sesso e violenza, su orgoglio di razza e autodeterminazione e, forse proprio per questo, diventò cinema politico e, in un certo qual modo, di rivalsa. Solo in pochi si potevano dire eredi di Bill Foster (regista, forse, del primo black film della storia, datato 1912: The Railroad Porter) o di quell’Oscar Micheaux autore, nel 1925, di Body and Soul, pellicola di recente recuperata e trasmessa anche in Italia (su Studio Universal): i film blaxploitation erano film commerciali che puntavano ad incassi elevati e bassi costi di produzione. Gli stessi intellettuali neri ne stigmatizzarono il successo in quanto lo ritenevano strumento di distrazione dalle coeve lotte per i diritti civili della comunità afroamericana. Forse era così, ma  non se ne poteva negare l’importanza nel processo di presa di coscienza di un’intera comunità. NAACP, Southern Christian Leadership Conference  e Urban League si associarono, tuttavia, per formare la Coalition Against Blaxploitation e, data l’enorme pressione politica che erano in grado di esercitare, decretarono la morte del genere tra il 1975 ed il 1976. La blaxploitation, in definitiva, fu fenomeno durato appena un lustro, in grado, tuttavia, non solo di dar vita a numerose pellicole, ma anche di incidere su un immaginario decisamente più vasto (007 – Vivi e lascia morire, ottavo capitolo delle avventure di James Bond, è dai più ritenuto enormemente influenzato dalla moda imperante della blaxploitation, per scelta del villain, interpretato da Yaphet Kotto, e location) e duraturo, se è vero, come è vero, che, ancora oggi, omaggi, rimandi e citazioni non si contano. L’ultimo, in ordine di tempo, è il videoclip di So Many Pros di Snoop Dogg, diretto da François Rousselet, ma anche il successo di Straight Outta Compton, diretto da F. Gary Gray, che ricostruisce la storia dei Niggaz Wit Attitude (gruppo gangsta rap di cui faceva parte proprio Snoop Dogg). testimonia di un lascito persistente soprattutto per quanto riguarda il sound (sempre rigorosamente Motown), il look ed il mood.

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Le Anime nere di Munzi alla sesta giornata del Napoli Film Festival

In Anime Nere, il film di Francesco Munzi vincitore di nove statuette ai David di Donatello 2015, la storia di un territorio, quello calabrese, dilaniato dalle correnti inquinate della ‘ndrangheta e la vicenda di una famiglia ad esso appartenente, si compenetrano fino a diventare un unico corpo. Le radici della famiglia Carbone, nome che rimanda direttamente al colore della sua anima, sono pastorali, figlie di una terra ancora in parte legata alla tradizione; ma i suoi rami hanno assunto col tempo forme e lunghezze diverse. Gli ultimi due figli, Luigi e Rocco, hanno scelto di abbandonare la terra madre per abbracciare una malavita dai contorni internazionali, mentre il primo, Luciano, non ha mai lasciato quel ventre materno, protetto da un passato che non prevede alcun rischio, avendo rinnegato ogni cambiamento. Il figlio di Luciano, figlio unico di un’epoca e di una paese malato, riconosce l’anima nera della terra e di una parte della sua famiglia, e questo riconoscimento, divenuto una scelta, cambierà radicalmente il volto delle cose.

Anime Nere

Lì dove tutto inizia, tutto finisce, sembra dirci Munzi; ma anche il contrario, come una moneta avente la stessa faccia da entrambi i lati o una scelta che ci illudiamo di poter fare.

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Napoli Film Festival 2015 Day 5: Rabin, the Last Day

Napoli Film Festival

Due anticipazioni in una quelle di ieri al Metropolitan: la seconda nazionale dell’ultimo Docufilm di Amos Gitai, Rabin, the Last Day, già proiettato e applaudito il mese scorso in occasione della 72esima Mostra del Cinema di Venezia, e l’apertura speciale della Quinta Edizione di Venezia a Napoli. Il cinema esteso,  che avrà luogo dal 22 al 25 Ottobre.

Gitai, attraverso flashback, documenti reali e ricostruzioni fedeli, racconta le ultime ore di vita del Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin, ucciso da Yigàl Amìr, un attivista dell’organizzazione EYAL (Organizzazione dei Guerrieri  Ebrei) contro la pace, in occasione di un comizio politico.

“Il film rappresenta la commissione d’inchiesta che nella realtà non è mai stata attuata”, dice il regista.
“Due anni di ricerche accurate, nel tentativo di rendere il pubblico non un semplice spettatore, ma un fruitore in grado di interpretare quanto accaduto”.

Per questo motivo, Amos Gitai sceglie di partire dalla fine, ricostruendo lentamente, con dovizia di particolari, le ultime ore di Rabin e del suo assassino, l’entusiasmo dell’uno e l’assenza totale di emozioni dell’altro. Ma dalla pellicola trapela, in modo non troppo velato, anche l’idea di un complotto ordito ai danni del ministro, con quella macchina che nella corsa disperata verso l’ospedale ha impiegato più del dovuto, l’assenza di una protezione adeguata, la testimonianza di chi lo ha visto dirigersi da solo verso l’autovettura dopo lo sparo,  a indicare come il colpo mortale fosse stato inferto in un secondo momento; ma il regista non conferma, lasciando alla pellicola la responsabilità di ciò che le sue immagini dicono.

Rabin ha combattuto per creare un collante di pace tra Israele e la Palestina, una pace intesa come armonia di differenze, come un occhio attento ai bisogni dell’altro e una fuga dalla perfezione, da quell’appiattimento identitario che è fonte di fanatismo;  ha tentato di rompere l’equilibrio, ricostruendolo in una ricomposizione in ordine sparso di tutti i suoi pezzi, e Amos Gitai  fa lo stesso nel film, con quel suo cinema che è proprio perdita costante e cercata di un equilibrio.
“In un periodo storico in cui siamo bombardati di informazioni, ho voluto trasformare le informazioni in conoscenza. Ma la conoscenza è dolore”, rivela il regista israeliano a fine intervista. E tutto il dolore del suo popolo traspare in quella figura che cammina di spalle sotto la pioggia, l’immagine fuori fuoco della giustizia che si allontana da un territorio ancora troppo affamato di pace.

Napoli Film Festival 2015 Day 3: Giancarlo Siani e Fortapàsc

Fortapasc

Verità e non verosimiglianza.

Nell’incontro di ieri al Metropolitan “Ricordando Giancarlo Siani” Marco Risi, Andrea Purgatori e Libero De Rienzo, rispettivamente regista, sceneggiatore e protagonista del film Fortapàsc, a trent’anni dalla sua morte hanno reso omaggio al giornalista ucciso dalla camorra il 23 settembre 1985 a ventisei anni, con una breve intervista di Federico Monga, vicedirettore de Il Mattino, che ha anticipato la proiezione. La sottile linea di demarcazione tra verità e verosimiglianza, evidenziata da Libero De Rienzo, incarna il cuore pulsante della pellicola e della vita del giornalista partenopeo: il coraggio, la forza, l’anima di essere un giornalista “giornalista”, che si scrolla di dosso la comoda veste del giornalista “impiegato” per scegliere e raccontare la verità.

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Napoli Film festival 2015 Day 2: Durak di Yury Bykov

Durak al Napoli Film festival

Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri. – Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte? – E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il  capo per tutta la vita?
Platone, Opere, vol. II

Nel Mito della Caverna platonico l’uomo che tenta di liberare i prigionieri e  ricondurli verso la luce, per vedere non più solo l’ombra ma la verità delle cose è Socrate, e conosciamo bene il suo destino. Il destino del protagonista del film russo Durak (Il Pazzo) di Yuri Bykov, proiettato ieri pomeriggio al Grenoble, Institut français Napoli, nell’ambito della Rassegna Europa/Mediterraneo e già visto al Locarno Festival 2014, è solo in apparenza diverso. Dima Nikitin (Artem Bystov), idraulico che di notte studia per diventare ingegnere, ha ereditato dal padre un’onestà che lo fa schivo e silenzioso in un mondo saturo di parole urlate e di vendetta.

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