La blaxploitation recava in sé qualcosa di ambiguo. Sembrerebbe essere stato un movimento cinematografico di rivalsa dei neri, mentre i due termini dalla cui fusione deriva (black e exploitation) ne svelano l’intima, ed oseremmo dire atavica, natura di “sfruttamento” dei “neri”. Forse fu entrambe le cose. Nella maggior parte dei casi, infatti, si trattava di opere prodotte dalle major, dirette da bianchi, ma, e qui forse risiedeva la novità, per un pubblico di neri. Le figure che emergevano nei film blaxploitation non erano forse meno stereotipate di quelle della cinematografia del passato, ma di sicuro non erano quelle gradite ad un pubblico wasp. Dimenticate il coon (il buffone nero), il tom (da Zio Tom, il nero integrato nella società dei bianchi, come, nonostante le apparenze, sarà in fondo Sidney Poitier) e la mammy (la domestica, figura che pure valse un Oscar come non protagonista a Hattie McDonald la quale ne vestì i panni in Via col vento): i ’70 furono l’epoca della Trinità dello Spacciatore, del Pappa e della Pantera (come scrive Darius James nel suo imprescindibile That’s Blaxploitation!: Roots of the Baadasssss ‘Tude – Rated X by an All-Whyte Jury). Basta con gli “sbiancati” e a modo Poitier e Belafonte, la blaxploitation, in quanto exploitation, insistette su sesso e violenza, su orgoglio di razza e autodeterminazione e, forse proprio per questo, diventò cinema politico e, in un certo qual modo, di rivalsa. Solo in pochi si potevano dire eredi di Bill Foster (regista, forse, del primo black film della storia, datato 1912: The Railroad Porter) o di quell’Oscar Micheaux autore, nel 1925, di Body and Soul, pellicola di recente recuperata e trasmessa anche in Italia (su Studio Universal): i film blaxploitation erano film commerciali che puntavano ad incassi elevati e bassi costi di produzione. Gli stessi intellettuali neri ne stigmatizzarono il successo in quanto lo ritenevano strumento di distrazione dalle coeve lotte per i diritti civili della comunità afroamericana. Forse era così, ma non se ne poteva negare l’importanza nel processo di presa di coscienza di un’intera comunità. NAACP, Southern Christian Leadership Conference e Urban League si associarono, tuttavia, per formare la Coalition Against Blaxploitation e, data l’enorme pressione politica che erano in grado di esercitare, decretarono la morte del genere tra il 1975 ed il 1976. La blaxploitation, in definitiva, fu fenomeno durato appena un lustro, in grado, tuttavia, non solo di dar vita a numerose pellicole, ma anche di incidere su un immaginario decisamente più vasto (007 – Vivi e lascia morire, ottavo capitolo delle avventure di James Bond, è dai più ritenuto enormemente influenzato dalla moda imperante della blaxploitation, per scelta del villain, interpretato da Yaphet Kotto, e location) e duraturo, se è vero, come è vero, che, ancora oggi, omaggi, rimandi e citazioni non si contano. L’ultimo, in ordine di tempo, è il videoclip di So Many Pros di Snoop Dogg, diretto da François Rousselet, ma anche il successo di Straight Outta Compton, diretto da F. Gary Gray, che ricostruisce la storia dei Niggaz Wit Attitude (gruppo gangsta rap di cui faceva parte proprio Snoop Dogg). testimonia di un lascito persistente soprattutto per quanto riguarda il sound (sempre rigorosamente Motown), il look ed il mood.
È questo lasso di tempo (1970 – 1975/76) che abbiamo tenuto presente per compilare la playlist che segue. Successivamente, la presenza di attori neri anche nel cinema mainstream si fa più intensa, è vero, ma pagando il prezzo di un ritorno alle origini. I neri si imborghesiscono anche in tv (il passaggio da Sanford & Son e Good Times a I Jeffersons e Diff’rent Strokes non lascia spazio a dubbi di sorta) ed al cinema arrivano “pallidi” tentativi di rivalsa (Sparkle o la discutibile, sebbene musicalmente ineccepibile, versione di Il mago di Oz prodotta dalla Motown, I’m Magic di Sidney Lumet). Richard Pryor, presenza significativa del fenomeno blaxploitation (il drammatico Mack – Il marciapiede della violenza di Michael Campus ed il comico/corale Car Wash di Michael Schultz), finì paradossalmente col rivestire di nuovo i panni del coon (la spalla di colore), soprattutto al fianco di Gene Wilder (in Nessuno ci può fermare del “tom” Sidney Poitier, Wagon-Lits con omicidi e Non guardarmi, non ti sento di Arthur Hiller), cosa che fece anche il primo Eddie Murphy in 48 ore e Una poltrona per due, Eddie Murphy che, per il suo esordio alla regia, Harlem Nights del 1989, volle accanto a sé proprio Pryor. Il film fu un insuccesso, il che fece pensare che una formula come quella dei primi ’70 non fosse più gradita. Poi, però, ad inizio novanta, il mondo critico salutò l’avvento della neoblaxploitation, propiziata da Mario Van Peebles (figlio del Melvin Van Peebles autore di Sweet Sweetback’s Baadasssss Song, il film da cui, per molti, ebbe tutto inizio) che diresse nel 1991 New Jack City e nel 1993 Posse. Quando, nel 1995, curò la regia di Panther (scritto dal padre), la neoblaxploitation era già sul viale del tramonto. Film come i suoi, Boyz n the Hood di John Singleton, Nella giungla di cemento dei fratelli Allen e Albert Hughes (senza tener conto della reunion senile di vecchie star blaxploitation in Sfida Finale di Larry Cohen), ebbero sì successo, ma non furono in grado di radicarsi nell’immaginario come Superfly, Foxy Brown o Shaft. Anzi, nel 2000, il flop del reboot di quest’ultimo, firmato da John Singleton ed interpretato da Samuel L. Jackson, fu una sorta di certificazione dell’impossibile rinascita di un fenomeno. Cominciò l’era del blackbuster (Uno sguardo dal cielo, rem(bl)ake di La moglie del vescovo di Henry Koster, Donne – Waiting to Exhale di Forest Whitaker, Beloved di Jonathan Demme, prodotto ed interpretato dalla regina del talk show Oprah Winfrey) degli spoof sulla blaxploitation, vecchia e nuova (Scappa, scappa…poi ti prendo! di Keenen Ivory Wayans, Don’t Be a Menace to South Central While Drinking Your Juice in the Hood scritto ed interpretato da Shawn e Marlon Wayans, ma la parodia più riuscita è Black Dynamite di Scott Sanders) o, per dirla con Antonio Fargas, intervistato da Darius James, l’era del passaggio da Nero ad Afroamericano (dopo quella, seventies, del passaggio da Negro a Nero) con tutto il corollario di ipocrisia politicamente corretta che accompagna l’uso di perifrasi e litote per definire qualcosa o qualcuno. Film come The Butler (quasi un biopic di un mammy di sesso maschile, ovvero Eugene Green, maggiordomo nero della Casa Bianca per trent’anni), diretto dal nero Lee Daniels e con un cast di attori neri (Whitaker e Oprah), fanno rimpiangere prodotti magari meno curati, ma che hanno sicuramente inciso di più sull’identità di un’intera comunità che ora appare nuovamente vittima di un’immagine scelta e voluta da una società di bianchi.
1 – Sweet Sweetback’s Baadasssss Song di Melvin Van Peebles
La pubblicistica sull’argomento indica Sweet Sweetback’s Baadasssss Song quale capostipite della blaxploitation (salvo Darius James che individua l’exploitation, ovvero la carratteristica di prodotto a basso costo confezionato per sfruttare una moda, per la prima volta in Slaughter, pellicola della AIP di Samuel Z. Arkoff, con protagonista Jim Brown). Sweet Sweetback’s non è il primo film di un nero sui neri, ma forse è il primo a presentarsi come manifesto ideologico (il cartello iniziale, «Questo film è dedicato a tutti i fratelli e le sorelle che ne hanno abbastanza dell’uomo bianco», è ben più di una semplice frase posta in esergo, è un invito alla ribellione) e collettivo (non ci sono i nomi degli attori, ma un significativo The Black Community a definire il cast) della comunità nera. Cinematograficamente Sweet Sweetback’s è cinema guerrilla, nouvelle vague (Melvin Van Peebles aveva vissuto in Francia dove aveva esordito alla regia con The Story of a Three-Day Pass), underground e avanguardia (qualcosa di simile lo aveva tentato Robert Downey Sr., un bianco, con Putney Swope, quasi un film/happening su un pubblicitario che licenzia tutti gli impiegati bianchi della sua agenzia tranne uno). Nel 2003, Mario Van Peebles ha diretto Baadasssss!How to Get the Man’s Foot Outta Your Ass che ricostruisce la lavorazione di quello che, dai più, è considerato, a tutti gli effetti, il Nascita di una nazione della comunità afroamericana.
2 – L’uomo caffelatte di Melvin Van Peebles
La Columbia ingaggiò Melvin Van Peebles, sull’onda del clamore suscitato dal suo debutto francese, per dirigere questa storia, scritta dal caucasico Herman Raucher, di un bianco razzista che, all’improvviso, una mattina si sveglia nero (e la prima cosa che vediamo di questo colore è il culo). Lo strano contrappasso gli farà vivere, e quindi capire, cosa significhi essere nero in America. Godfrey Cambridge appare nel primo quarto d’ora truccato da bianco (ed era un’esperienza già fatta, visto che nel 1961 aveva preso parte alla prima rappresentazione in terra americana del testo di Jean Genet, The Blacks: A Clown Show) rovesciando chiasmaticamente l’espediente (la black face) utilizzato dagli attori bianchi nei minstrel show di inizio secolo XX (nel dopoguerra anche gli attori neri, ingaggiati per questo tipo di spettacoli, si truccavano “da neri”, come si può vedere nell’arrabbiatissimo Bamboozled di Spike Lee). Ma L’uomo caffelatte si rivelò commedia troppo sofisticata per piacere al pubblico, di qualsiasi colore fosse la sua pelle, sicché lo scarso successo spinse Van Peebles a fare da solo, producendo, interpretando, dirigendo, montando e musicando (con gli Earth, Wind & Fire) Sweet Sweetback’s . Fare da soli: la rivoluzione era cominciata. E, tutto sommato, è anche merito di L’uomo caffelatte e del suo insuccesso.
3 – Shaft di Gordon Parks
Un uomo attraversa la strada, un’automobile frena poco prima di investirlo e lui alza il dito medio all’indirizzo del guidatore. Ecco l’ingresso in scena del detective John Shaft (Richard Roundtree). È la blaxploitation, bellezza! A Van Peebles piace raccontare che il copione originario avessecome protagonista un bianco e che il successo di Sweet Sweetback’s avesse convinto la produzione a cambiarne i connotati razziali. Difficile sapere se sia vero o meno dato che Ernest Tidyman, l’autore, vendette i diritti prima di pubblicare sicché il poliziotto è nero anche nella versione letteraria (e anzi, il romanzo fu lanciato con lo slogan molto blaxploitation “Più caldo di Bond, più cool di Bullitt“). Shaft è sicuro di sé, tiene testa ai colleghi bianchi, velatamente discriminatori, ha un grande ascendente sulle donne. I due sequel, Shaft colpisce ancora di Gordon Parks e soprattutto Shaft e i mercanti di schiavi di John Guillermin, non ebbero lo stesso impatto del prototipo, così come la serie tv, a causa di un progressivo rientrare nei ranghi del “tom” del personaggio. Che morì anche letteralmente e letterariamente nel 1975 nel romanzo The Last Shaft, resuscitando, però, sul grande schermo, in un cameo al bar nel già citato reboot del 2000 in cui Samuel L. Jackson interpreta un nipote dello Shaft originario. La pellicola vinse l’Oscar per la miglior canzone, quella Shaft’s Theme scritta e cantata da Isaac Hayes, il cui valore mitopoietico è superiore finanche al film (e sotto trovate anche il filmato della cerimonia dell’Academy a dimostrazione della sua blaxploitationizzazione, nell’anno di grazia 1972) . Hayes avrebbe poi vestito i panni di un simil Shaft in Uomini duri di Duccio Tessari ed in È tempo di uccidere detective Treck di Jonathan Kaplan.
4 – Superfly di Gordon Parks Jr.
Shaft fu un successo, ma è con Superfly che la blaxploitation comincia a smarcarsi e a differenziarsi dal cinema dei bianchi, perché l’eroe qui non è un poliziotto (cool come solo un nero sa essere, ma pur sempre un poliziotto), ma un pusher (“I’m Pusherman” recita il brano della colonna sonora scritta da Curtys Mayfield, perché, tra alti e bassi, se c’è una cosa nella quale la blaxploitation non ha mai tradito il suo pubblico di fan è nel sound). Il quale, per di più, decide sì di tirarsi fuori dal giro perché si rende conto dell’inferno, che con la sua roba, ha contribuito a creare, ma non prima di aver tirato su un po’ di soldi per godersi la vita lontano da Harlem. Nonostante ci fosse la Warner dietro, il film fu comunque girato con tecniche da guerrilla: Sig Shore, il produttore, si rifiutava di mostrare i giornalieri agli executive degli studios; rubarono, più volte, la luce dagli impianti di illuminazione pubblica e, all’occorrenza, si fecero finanziare da boss, spacciatori e maîtresse. Alla fine, comunque, il film incassò uno sproposito e nell’inevitabile secondo capitolo, Superfly T.N.T. che diresse lo stesso protagonista Ron ‘O Neal, anche Priest Youngblood (trasferitosi a Roma per immergersi nella dolce vita) perde la sua carica eversiva scegliendo di finanziare, coi proventi della vecchia attività, un movimento di liberazione di un popolo africano. Del tutto irrilevante il secondo sequel del 1990, diretto da colui che aveva prodotto il primo, Sig Shore. Troppo brutto e decisamente fuori tempo anche per la neoblaxploitation.
5 – Blacula di William Craine
L’altra faccia della blaxploitation: la semplice e poco incisiva riproposizione di figure, personaggi dell’immaginario bianco, in chiave black (un po’ come succede oggi per lo young adult che invade scaffali di librerie e sale cinematografiche di vampiri, licantropi, zombi, streghe, fantasmi e alieni da poco entrati nell’età adulta). Horror soprattutto (Blackenstein, Dr. Black, Mr. Hyde, Abby aka The Blackorcist, gli zombi neri di Sugar Hill), ma anche una Black Lolita, un Black Caesar – Il padrino nero, un Black Shampoo (quasi a volersi riappropriare di quella esuberanza sessuale, da sempre prerogativa black, rubata da Robert Towne e Warren Beatty per disegnare il personaggio del parrucchiere George in Shampoo di Hal Ashby) e addirittura The Black Gestapo (tanto per non farsi mancare nulla in questa corsa all’emulazione, ad essere sinceri poco black e molto exploitation). Blacula, però, tra le tante operazioni deprecabili, si ritaglia uno spazio di dignità, sia per la storia (nel 1780 il principe africano Mamuwalde va in Transilvania, con la moglie Luva, per chiedere ragione a Dracula della tratta degli schiavi africani; Dracula ucciderà la moglie e vampirizzerà Mamuwalde che poi finirà nella Los Angeles degli anni ’70, trasportato nella bara, assieme ad altri cimeli del castello, da una coppia di antiquari gay) sia per la resa cinematografica. Fu l’unico dei film citati ad avere un sequel (Scream, Blacula Scream) ed un remake apocrifo, Vampiro a Brooklyn, diretto da Wes Craven ed interpretato da Eddie Murphy. Sull’argomento, di ben altra caratura è Ganja & Hess di Bill Gunn (Premio della Critica al Festival di Cannes del 1973) in cui il vampirismo si fa metafora della dipendenza (come in The Addiction di Abel Ferrara). Di quest’ultimo lavoro, Spike Lee, che sappiamo non avere buoni rapporti con la blaxploitation, ha diretto nel 2014 un remake, Da Sweet Blood of Jesus, inedito in Italia.
6 – Freeman – L’agente di Harlem di Ivan Dixon
“Qui non è questione di raccogliere le briciole dalle tavole dei bianchi, ma di costruire il nostro tavolo e cuocerci il nostro pane“. Così ancora parlava, a pochi anni dalla sua morte (avvenuta nel 2014), Sam Greenlee, autore di uno dei libri più influenti sul processo di autodeterminazione della comunità nera, The Spook Who Sat by the Door, storia di un nero che sfrutta il reclutamento, a fini elettorali, nella CIA per imparare le tecniche di guerriglia direttamente dal nemico e trasmetterle, una volta tornato nel ghetto, ai “fratelli” coi quali cominciare la rivoluzione. E tecniche da guerriglia utilizzarono anche Sam Greenlee stesso ed il regista Ivan Dixon (noto per il ruolo di Kinchloe nel telefilm Gli eroi di Hogan, ma era stato anche controfigura di Sidney Poitier in La parete di fango) che girarono con duecentomila dollari della United Artists e ottocentocinquantamila raccolti da due avvocati nella comunità (il crowdfunding! tsk tsk!) e rubando tutte le riprese a Chicago il cui sindaco non aveva concesso i permessi. A Freeman sta stretta l’etichetta di blaxploitation perché si tratta di cinema politico vero e proprio, in grado di infiammare le masse e di indurre a riflettere sulla propria condizione, come dichiara, nei contenuti extra del dvd italiano, edito dalla No Shame, Robert Townsed, autore di una delle commedie più graffianti sugli stereotipi cinematografici neri: Hollywood Shuffle.
7 – Foxy Brown di Jack Hill
Titoli di testa à la James Bond, ma le tante silhouette femminili sono una sola donna: Foxy Brown. In abiti e parrucche diverse. Se gran parte del cinema nero finiva col riproporre, in versione black, personaggi e situazioni del cinema bianco, Pam Grier, come sostiene Darius James, non solo non ebbe un omologa bianca, ma probabilmente non ebbe rivali neanche tra le sue “sorelle” nere (non la Tamara Dobson dei due Cleopatra Jones, né la Vonetta McGee che aveva esordito in Italia con Luigi Magni e Sergio Corbucci, in Faustina e Il grande silenzio, e poi fu protagonista di Melinda, Blacula, Hammer, Thomasine & Bushrod, per non parlare della Jeanie Bell di T.N.T Jackson). In Foxy Brown la Grier è circondata di uomini fragili (il fratello Link, interpretato da Antonio Fargas ovvero l’Huggy Bear di Starsky & Hutch, forse il telefilm più blaxploitation di quegli anni), corrotti (il giudice che spingerà nudo nel corridoio di un albergo), dubbiosi (i membri del comitato di quartiere, rappresentati come se fossero Black Panthers, che stentano a volerle dare una mano per eliminare gli spacciatori che hanno rovinato il posto in cui vivono) e, all’occorrenza, dà una lezione anche ad un gruppo di lesbiche manesche. Insomma Pam Grier è “la regina delle donne”, di tutte le donne. Lo sostiene Quentin Tarantino che, infatti, ha eretto, in suo onore, quel monumento che è Jackie (guarda caso) Brown.
8 – Pupe calde e mafia nera di Ossie Davis
“È abbastanza nero?” è la domanda ricorrente che il sedicente reverendo Deke O’ Malley rivolge a seguaci e, più ironicamente, a complici della truffa messa in piedi per spillare soldi ai neri promettendo loro un ritorno nella “madre Africa”. Pupe calde e mafia nera è il primo film con protagonisti i due detective Gravedigger Jones (Godfrey Cambridge) e Coffin Ed Johnson (Raymond St. Jacques), Beccamorto e Bara in Italia, nati dalla penna di Chester Himes, forse il primo autore nero ad essere pubblicato da Gallimard negli anni ’50 (ma Soldi neri, ladri bianchi/Cotton Comes to Harlem è un libro del 1967, mentre il suo romanzo d’esordio, del 1957, sempre con Beccamorto e Bara, Rabbia ad Harlem, è diventato film nel 1991, in piena neoblaxploitation, per la regia di Bill Duke). Secondo Darius James, che si sente supportato dall’opinione di Pablo Picasso, compagno di bevute di Himes in quel di Parigi (dove lo scrittore si era trasferito, dopo essere stato licenziato dalla Warner perché negro), la prosa di Himes era più vicina all’improvvisazione jazz e, pertanto, più adatta ad essere trasposta in fumetto (e pare che Picasso ne abbia disegnato uno su un tovagliolo) che sul grande schermo. Sarà, ma a noi Pupe calde e mafia nera, diretto dall’attore Ossie Davis che fu scelto dalla produzione (le major avevano intuito le potenzialità commerciali di un cinema fatto da neri per i neri, ben prima di Sweet Sweetback’s) anche in virtù del suo impegno politico (lesse l’elogio funebre per Malcolm X), sembra un lavoro girato molto bene (specialmente le scene d’azione) e con spunti per nulla banali sia pur mitigati dall’ironia dello stesso Himes (la balla di cotone/scrigno che rimanda alle piantagioni di cui tutti i neri parlano senza averle mai viste; la ballerina che rifiuta di indossare piume e lustrini perché la sua deve essere una danza che ricordi ai neri le loro origini). Il seguito, Harlem Detectives, fu curiosamente tratto dal romanzo precedente di Himes, The Heats On.
9 – Willie Dynamite di Gilbert Moses
Willie non vende corpi, vende un’idea. E, da liberista convinto, si scontra col collega/rivale Bill, intenzionato a creare un sindacato dei papponi, e con un’ex prostituta, ora assistente sociale, che cerca di convincere le ragazze di Willie se non ad abbandonare la professione, quanto meno a lavorare per sé stesse. Siamo al terzo elemento della Trinità di Darius James: il pimp, il pappone. Alla pari del romanzo di Sam Greenlee, un’altra pubblicazione che ebbe un peso non indifferente nella formazione dell’identità di tanti giovani neri americani (quasi quanto l’autobiografia di Malcolm X che, ricordiamolo, prima di convertirsi e rinunciare al cognome in favore di un’anonima X da schiavi, era stato Malcolm Little, tra le altre cose, spacciatore e pappone), fu Pimp: The Story of My Life firmato da Iceberg Slim, al secolo Robert Beck, che fu davvero un protettore prima di ritirarsi ed essere riconosciuto da molti quale iniziatore della Street Lit (Irwine Welsh ha detto di lui: “Iceberg Slim ha fatto per il pimp quello che Jean Genet ha fatto per l’omosessuale e ladro e William Burroughs ha fatto per il tossico: ne ha articolato i pensieri e i sentimenti, vivendoli di persona. La grande differenza è che quelli erano bianchi“). Sul personaggio del pimp (che non ha omologhi nei film bianchi) ci sono diverse opere tra cui il già citato Mack – Il marciapiede della violenza ed il parodistico Dolemite con Rudy Ray Moore. Di Willie Dynamite non si ricordano certo le scarse qualità cinematografiche o il messaggio (c’è anche spazio, ma non più di un minuto, per un dialogo sull’essere o meno musulmani o cattolici praticanti, tra due poliziotti, uno bianco ed uno nero), ma i completi del protagonista per render giustizia ai quali bisognerebbe ridefinire il concetto di kitsch.
10 – Dinamite, agguato, pistola di Gordon Parks Jr.
Praticamente il cinepanettone della blaxploitation. Non solo perché riunisce tre delle star del genere, ma anche per la sciatteria della confezione (si salva una discreta sequenza d’azione ambientata su una diga) e la trama ai minimi termini. Gli ex campioni di football Jim Brown (visto in Slaughter – Uomo mitra, Pistola nera – spara senza pietà, tick…tick…tick…esplode la violenza) e Fred Williamson (Black Caesar – Il padrino nero, Hammer, The Legend of Nigger Charlie) in compagnia dell’artista marziale Jim Kelly (I tre dell’operazione Drago, Johnny lo svelto, Black Samurai), star incontrastata (ché nessun segno hanno lasciato i vari Ron Van Clief, Clint Robinson, Warhawk Tanzania e Carl Scott) di una costola della blaxploitation definita blax fu (che fa ancora proseliti se pensiamo al divertente Romeo deve morire di Andrzej Bartkowiak ed allo sciagurato L’uomo coi pugni di ferro di RZA), devono vedersela con un ricco neonazista, deciso a purificare l’umanità (“Dio ci ha messo sette giorni a creare l’umanità, noi solo tre a purificarla“), grazie ad una scoperta del Dr. Fortrero (un bacillo che, introdotto nell’acqua, sarebbe in grado di uccidere solo la popolazione nera, “come l’anemia falciforme, ma mortale“). Nonostante la bruttezza (ma ci giureremmo che Tarantino non veda l’ora di citare la scena delle tre amazzoni motorizzate in tute rossa, bianca e blu e tre K sulla parte anteriore della moto), il successo del film convinse la Fox ad ingaggiare le tre stelle (e gli sceneggiatori Eric Bercovici e Jerry Ludwig) per un western che i protagonisti volevano fosse nero, mentre la produzione preferiva un bianco. Alla fine, il produttore Harry Bernsen fece il nome di un europeo, Antonio Margheriti, e mise tutti d’accordo. Nacque così La parola di un fuorilegge…è legge! curioso ibrido tra la blaxploitation, lo spaghetti western ed il western classico garantito dalla presenza di Harry Carey Jr. e Dana Andrews.
https://www.youtube.com/watch?v=nCcnLReO67s