La blaxploitation recava in sé qualcosa di ambiguo. Sembrerebbe essere stato un movimento cinematografico di rivalsa dei neri, mentre i due termini dalla cui fusione deriva (black e exploitation) ne svelano l’intima, ed oseremmo dire atavica, natura di “sfruttamento” dei “neri”. Forse fu entrambe le cose. Nella maggior parte dei casi, infatti, si trattava di opere prodotte dalle major, dirette da bianchi, ma, e qui forse risiedeva la novità, per un pubblico di neri. Le figure che emergevano nei film blaxploitation non erano forse meno stereotipate di quelle della cinematografia del passato, ma di sicuro non erano quelle gradite ad un pubblico wasp. Dimenticate il coon (il buffone nero), il tom (da Zio Tom, il nero integrato nella società dei bianchi, come, nonostante le apparenze, sarà in fondo Sidney Poitier) e la mammy (la domestica, figura che pure valse un Oscar come non protagonista a Hattie McDonald la quale ne vestì i panni in Via col vento): i ’70 furono l’epoca della Trinità dello Spacciatore, del Pappa e della Pantera (come scrive Darius James nel suo imprescindibile That’s Blaxploitation!: Roots of the Baadasssss ‘Tude – Rated X by an All-Whyte Jury). Basta con gli “sbiancati” e a modo Poitier e Belafonte, la blaxploitation, in quanto exploitation, insistette su sesso e violenza, su orgoglio di razza e autodeterminazione e, forse proprio per questo, diventò cinema politico e, in un certo qual modo, di rivalsa. Solo in pochi si potevano dire eredi di Bill Foster (regista, forse, del primo black film della storia, datato 1912: The Railroad Porter) o di quell’Oscar Micheaux autore, nel 1925, di Body and Soul, pellicola di recente recuperata e trasmessa anche in Italia (su Studio Universal): i film blaxploitation erano film commerciali che puntavano ad incassi elevati e bassi costi di produzione. Gli stessi intellettuali neri ne stigmatizzarono il successo in quanto lo ritenevano strumento di distrazione dalle coeve lotte per i diritti civili della comunità afroamericana. Forse era così, ma non se ne poteva negare l’importanza nel processo di presa di coscienza di un’intera comunità. NAACP, Southern Christian Leadership Conference e Urban League si associarono, tuttavia, per formare la Coalition Against Blaxploitation e, data l’enorme pressione politica che erano in grado di esercitare, decretarono la morte del genere tra il 1975 ed il 1976. La blaxploitation, in definitiva, fu fenomeno durato appena un lustro, in grado, tuttavia, non solo di dar vita a numerose pellicole, ma anche di incidere su un immaginario decisamente più vasto (007 – Vivi e lascia morire, ottavo capitolo delle avventure di James Bond, è dai più ritenuto enormemente influenzato dalla moda imperante della blaxploitation, per scelta del villain, interpretato da Yaphet Kotto, e location) e duraturo, se è vero, come è vero, che, ancora oggi, omaggi, rimandi e citazioni non si contano. L’ultimo, in ordine di tempo, è il videoclip di So Many Pros di Snoop Dogg, diretto da François Rousselet, ma anche il successo di Straight Outta Compton, diretto da F. Gary Gray, che ricostruisce la storia dei Niggaz Wit Attitude (gruppo gangsta rap di cui faceva parte proprio Snoop Dogg). testimonia di un lascito persistente soprattutto per quanto riguarda il sound (sempre rigorosamente Motown), il look ed il mood.