Due anticipazioni in una quelle di ieri al Metropolitan: la seconda nazionale dell’ultimo Docufilm di Amos Gitai, Rabin, the Last Day, già proiettato e applaudito il mese scorso in occasione della 72esima Mostra del Cinema di Venezia, e l’apertura speciale della Quinta Edizione di Venezia a Napoli. Il cinema esteso, che avrà luogo dal 22 al 25 Ottobre.
Gitai, attraverso flashback, documenti reali e ricostruzioni fedeli, racconta le ultime ore di vita del Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin, ucciso da Yigàl Amìr, un attivista dell’organizzazione EYAL (Organizzazione dei Guerrieri Ebrei) contro la pace, in occasione di un comizio politico.
“Il film rappresenta la commissione d’inchiesta che nella realtà non è mai stata attuata”, dice il regista.
“Due anni di ricerche accurate, nel tentativo di rendere il pubblico non un semplice spettatore, ma un fruitore in grado di interpretare quanto accaduto”.
Per questo motivo, Amos Gitai sceglie di partire dalla fine, ricostruendo lentamente, con dovizia di particolari, le ultime ore di Rabin e del suo assassino, l’entusiasmo dell’uno e l’assenza totale di emozioni dell’altro. Ma dalla pellicola trapela, in modo non troppo velato, anche l’idea di un complotto ordito ai danni del ministro, con quella macchina che nella corsa disperata verso l’ospedale ha impiegato più del dovuto, l’assenza di una protezione adeguata, la testimonianza di chi lo ha visto dirigersi da solo verso l’autovettura dopo lo sparo, a indicare come il colpo mortale fosse stato inferto in un secondo momento; ma il regista non conferma, lasciando alla pellicola la responsabilità di ciò che le sue immagini dicono.
Rabin ha combattuto per creare un collante di pace tra Israele e la Palestina, una pace intesa come armonia di differenze, come un occhio attento ai bisogni dell’altro e una fuga dalla perfezione, da quell’appiattimento identitario che è fonte di fanatismo; ha tentato di rompere l’equilibrio, ricostruendolo in una ricomposizione in ordine sparso di tutti i suoi pezzi, e Amos Gitai fa lo stesso nel film, con quel suo cinema che è proprio perdita costante e cercata di un equilibrio.
“In un periodo storico in cui siamo bombardati di informazioni, ho voluto trasformare le informazioni in conoscenza. Ma la conoscenza è dolore”, rivela il regista israeliano a fine intervista. E tutto il dolore del suo popolo traspare in quella figura che cammina di spalle sotto la pioggia, l’immagine fuori fuoco della giustizia che si allontana da un territorio ancora troppo affamato di pace.