Strana immagine è la tua, disse, e strani sono quei prigionieri. – Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte? – E come possono, replicò, se sono costretti a tenere immobile il capo per tutta la vita?
Platone, Opere, vol. II
Nel Mito della Caverna platonico l’uomo che tenta di liberare i prigionieri e ricondurli verso la luce, per vedere non più solo l’ombra ma la verità delle cose è Socrate, e conosciamo bene il suo destino. Il destino del protagonista del film russo Durak (Il Pazzo) di Yuri Bykov, proiettato ieri pomeriggio al Grenoble, Institut français Napoli, nell’ambito della Rassegna Europa/Mediterraneo e già visto al Locarno Festival 2014, è solo in apparenza diverso. Dima Nikitin (Artem Bystov), idraulico che di notte studia per diventare ingegnere, ha ereditato dal padre un’onestà che lo fa schivo e silenzioso in un mondo saturo di parole urlate e di vendetta.
“Così ci affoghi con la tua onestà”, urla la madre a una figura paterna debole ma integra, e anche la moglie di Nikitin sembra lontana dal suo mondo, dominato da una morale che aspetta qualcuno o qualcosa che le dia voce. E l’occasione si presenta quando, trovandosi a riparare i tubi di un dormitorio, Nikitin scopre una crepa che attraversa tutta la struttura e che la condurrà al crollo nel giro di poche ore. Quella crepa che divide l’edificio a metà è anche la crepa che lo separa dal resto del mondo, cui però si avvicina usando i suoi stessi mezzi per farsi ascoltare: le urla, le parole violate. Si rivolge all’amministrazione, all’immagine della coscienza collettiva, ma in un mondo in cui la coscienza del singolo è stata annientata, quella collettiva non può che essere un’immagine vuota, un viso senza più occhi né bocca.
Ciò che sorprende di più osservando Nikitin è l’assoluta gratuità del suo sacrificio, un’apparente incoscienza infantile che gli rimprovera la madre: “Parli come un bambino, ma in che mondo vivi?”, che si trasforma in coscienza pura, in conoscenza del bene e del male priva di giudizi inquinanti e liberata dal fardello dell’autocoscienza.
Più volte viene definito idiota e pazzo, le stesse definizioni attribuite al Principe Myskin dell’Idiota dostoevskiano (e l’assonanza tra i due nomi non passa inosservata); ma qui l’innocenza delle azioni non è determinata da una cecità splendente, da un’assoluta bellezza emanante luce in un mondo di ombre e oscurità, bensì da una scelta precisa: è la conoscenza del bene, ma soprattutto quella del male a guidare Nikitin, spingendolo verso un sacrificio che suggella la sua fede nel genere umano. Una fede gratuita e coraggiosa, verso un’umanità danneggiata e sporca, come quella che popola il dormitorio, che si propone di informare e non più di educare.
L’esito dell’impegno socratico lo conosciamo, quello di Nikitin si manifesta in un finale che dopo un’orgia di parole violate, lascia spazio solo al silenzio.