I 10 migliori film del 2020

I migliori film del 2020, un anno difficile. Ma facile, forse, per chi ha l’abitudine di stilare questi elenchi a fine anno. Non che gli altri anni, nonostante il maggior numero di film distribuiti, ne presentassero tanti da meritare l’inserimento in queste classifiche/non classifiche (questa di Pigrecoemme, ricordiamolo, non lo è), ma sicuramente la visione domestica, forse, ha ridimensionato alcuni titoli che in sala avrebbero colpito di più e ridotto l’elenco a opere potenti in modo transmediale. Buona lettura.

Les Misérables di Ladj Ly

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Amici miei, tenete a mente questo: non ci sono né cattive erbe né uomini cattivi. Ci sono solo cattivi coltivatori” scriveva Victor Hugo in I Miserabili. Scritto a Montfermeil, teatro delle vicende narrate in Les Misérables di Ladj Ly, vincitore del Prix de Jury a Cannes 2019, che con quella citazione di Hugo si chiude. Nessun Jean Valjean, la miseria di oggi è prima di tutto culturale: gli adulti, i coltivatori, pensano agli affari propri, che siano poliziotti, trafficanti o “sindaci” come quello del rione Sanità. E i giovani, le erbe, subiscono. Fin quando non ne possono più. Ladj Ly dilata il cortometraggio omonimo fino alla durata di un’ora e un quarto, poi la storia continua in modo inedito e prende una piega nuova. Zero in condotta che incontra Ma 6-T va crack-er di Richet, nel finale incendiario con quella molotov in sospeso che brucia la pellicola chiudendola a iride su Issa. Un capolavoro, poco da aggiungere.

Il lago delle oche selvatiche di Diao Ynan

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Ci sono pochi registi in grado di evocare nello stesso film Melville, Il terzo uomo, La signora di Shanghai, Scorsese, Minnelli, Michael Mann senza essere sterilmente citazionisti, anzi mantenendo una propria identità e cifra riconoscibile. Ne dovremmo masticare di paranze di bambini, gomorre e suburre per arrivare a una tale rarefazione. Probabilmente, un universo simile (forse anche per i luoghi in cui ha scelto di far muovere i propri personaggi) potrebbe essere quello degli ultimi due lavori di Edoardo De Angelis. Dopo Fuochi d’artificio in pieno giorno, con Il lago delle oche selvatiche Diao Yinan raggiunge vette altissime.

Uncut Gems dei Safdie Brothers

Uncut Gems

E mentre ci si baloccava con la fuffa in (finto) piano sequenza di Sam Mendes, i fratelli Safdie confezionavano un fottuto filmone, ignorato dall’Academy, con un Adam Sandler incredibile. Scorsese che aleggiava già in Good Time (“te lo ricordi Good Times?” chiede il protagonista al figlio riferendosi, però, al telefilm seventies perché bussa alla porta del suo vicino che è John Amos) fin dal manifesto calco di Fuori orario, qui produce. E Howard Ratner è un personaggio estremamente scorsesiano, un perdente che non si arrende all’idea di esserlo. Ma i Safdie non si limitano a rifare Scorsese o Cassavetes o Schlesinger, trascendono i modelli di partenza e creano il loro mondo che è già riconoscibile.

L’uomo invisibile di Leigh Wannell

l'uomo invisibile

Quando nel 2014 l’Universal decise di far concorrenza al MCU recuperando i classici Mostri della Universal per un Dark Universe di grande ambizione, l’idea fallì subito a causa dell’insuccesso e della bruttezza di The Mummy con Tom Cruise. Se avessero fatto una scelta meno pomposa puntando su un mood da b movie, forse oggi sarebbe ancora in piedi. Se avessero affidato l’operazione a Leigh Whannell, forse oggi ci ritroveremmo una serie di piccoli gioielli horror. E sì, perché The Invisible Man scritto e diretto da Leigh Whannell è un vero gioiello. Whannell, dopo la prova incolore dietro la mdp di Insidious 3 e quella più convincente al timone di Upgrade, con la sua terza regia sancisce definitivamente la sua indipendenza da James Wan. E lo fa muovendosi in un territorio decisamente più interessante, tra Carpenter e Verhoeven. Già quest’ultimo, con L’uomo senza ombra, aveva fatto dell’uomo invisibile un maniaco violento e stalker, Whannell va oltre perché il suo uomo non è Kevin Bacon, è un attore poco riconoscibile e davvero invisibile per 3/4 del film. La protagonista è la vittima, Elisabeth Moss, e Whannell è eccezionale nel restituirci la frustrazione, la paura, l’incubo e la colpevolizzazione di chi subisce violenza psicologica e stalking. Semitotali fissi, piccoli dettagli (un coltello sottratto, la condensa originata da un respiro) che mettono ansia allo spettatore come alla protagonista, un piano sequenza spettacolare nei corridoi dell’Istituto psichiatrico. E, a margine, una riflessione mai banale sulla manipolabilità dell’immagine e della reputazione e sulla caducità di un visual effect digitale cui basta un glitch per essere rivelato.

I WeirDo di Liao Ming-yi

Da Taiwan il colpo di fulmine al Far East. Girato con un iPhone Xs, I WeirDo può sembrare, inizialmente, un filmetto che sfrutta la trovata del formato e una palette colori particolare per atteggiarsi a Wes Anderson orientale. Ma si tratta di una delicata storia d’amore, crudele come solo le storie d’amore sanno essere.

I WeirDo di Liao Ming-yi

Guerra e pace di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti

Si può filmare? Si deve filmare? Si può mostrare? Lo si può conservare in archivio? D’Anolfi e Parenti si muovono tra documentazione della rappresentazione (le immagini di inizio secolo scorso dello sbarco italiano a Tripoli) della guerra e loro personale rappresentazione (il racconto, inedito, dell’Unità di Crisi della Farnesina). L’analisi delle immagini si fa testuale (le voci che commentano le immagini della Cineteca Nazionale durante il processo di restauro) o paratestuale (l’insegnamento presso la scuola d’Ivry per registi militari che passa attraverso l’analisi di un quadro di Velázquez). Guerra e pace riflette (quanti volti sono inquadrati riflessi suo monitor?) sul legame tra cinema e guerra (il set è spesso un campo di battaglia) quale manifestazione, antica, della necessità di raccontare la seconda. Per propaganda, cronaca, documentazione storica. Il titolo non ha nella congiunzione “e” il significante di un’alternativa, ma di una coesistenza. D’Anolfi e Parenti parlano di guerra mostrando la pace dei centri di restauro, dell’Unità di Crisi (che vive convulsamente, ma non corre pericoli), della scuola. Una pace che coesiste con la guerra o che la contraddice.

Guerra e pace di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti

Funny Face di Tim Sutton

Lui ha la maschera, lei il mantello. Insieme sono un supereroe contro la gentrificazione. Quella urbana, ma anche quella del cinema che fa fuori Dan Hedaya e Rhea Perlman. No, un altro cinema è ancora possibile. Un cinema che racconti una storia d’amore come non se ne vedevano da tempo. Una storia d’amore che ha inizio quandoJoker incontra A Girl (that) Walks Home Alone at Night. Funny Face è il miglior film tra quelli visti al Torino Film Festival, nella sezione Le stanze di Rol curata da Pier Maria Bocchi. Con un Cosmo Jarvis da urlo. Il suo monologo balbettante in auto è da brividi.

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Il re di Staten Island di Judd Apatow

Judd Apatow che prova a fare Linklater. Judd Apatow che prova a fare David O. Russell. Ma Judd Apatow è Judd Apatow e, il racconto dei fancazzisti che diventano uomini, come lo gira lui, nessuno al mondo.

The King of Staten Island

Il buco in testa di Antonio Capuano

Il buco in testa spazza via le brutte sensazioni dello sgangheratissimo Achille Tarallo e ci restituisce un Antonio Capuano lucidissimo e ardito. In precario, ma efficace equilibrio tra gli anni di piombo e l’Italia di oggi, Capuano traccia un filo rosso che lega un paese che si ripiega continuamente su se stesso trascurando i giovani, lasciando orfani i propri figli, lasciando senza voce i proletari. Lo sbandamento di Maria (dietro cui si cela Antonia Custra, figlia di Antonio ucciso da Mario Ferrando il 14 maggio del 1977 a Milano durante degli scontri tra polizia e Autonomia operaia) si ripresenta in quello dei figli dei camorristi e in una dialettica sinistra/destra che non è anacronistica e si alimenta ancora, in maniera violenta, della connivenza col crimine organizzato. È un parallelo controverso, quello di Capuano, ma non del tutto irragionevole. Lo spettatore è messo in una condizione analogamente disorientante, sballottato tra linee temporali e stili diversi, montaggio ora invisibile ora vertoviano. Teresa Saponangelo giganteggia e l’ultima battuta del film è di una bellezza commovente.

Il buco in testa 2020 Antonio Capuano poster locandina

Sto pensando di finirla qui di Charlie Kaufman

William Wordsworth: “C’è stato un tempo nel quale (…)/ la Terra e ogni comune visione / a me parevan / rivestite di luce celeste” (Ode – Indizi di Immortalità dalle Memorie della Prima Infanzia). Ed è nel celeste che si dissolve il film/vita di Jake. Un film/vita di occasioni sprecate come un sottoscala che fa solo da lavanderia, come un gelato troppo dolce assaggiato appena. Un film/vita di rimpianti, di donne ideali(zzate come la Lucy dei Lucy Poems dalle Ballate Liriche ancora di Wordsworth). Un film/vita in cui è un’illusione che andrà meglio, che non è troppo tardi, che Dio ha un piano per te, che l’età è solo un numero, che è sempre più buio prima dell’alba, che dietro a ogni nuvola c’è un maledetto raggio di sole. Perché questo è un film di Charlie Kaufman non di Robert Zemeckis.

Sto pensando di finirla qui

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