È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino – La recensione

E' stata la mano di dio - paolo sorrentino - recensione

C’è qualcosa di più intimamente felliniano nell’ultimo film di Paolo Sorrentino, che va ben al di là della superficie cui ci ha abituato. La citazione forse meno esplicita è quella finale, quando Fabietto lascia Napoli per andare a Roma in treno come Moraldo (Franco Interlenghi) faceva in I vitelloni. E mentre lì il protagonista vedeva i suoi amici dal finestrino nelle loro stanze, con una invenzione linguistica bellissima, qui Fabietto li passa in rassegna alla stessa altezza (Marittiello) o dal basso verso l’alto (la baronessa, zia Patrizia che lo guardano da una finestra). Entrambi, però, guardano e la partenza verso Roma, verso il cinema, nasce proprio come esigenza di sublimazione di quello sguardo perenne.

e' stata la mano di dio- Filippo Scotti

Alla prima napoletana, Sorrentino ha eletto Massimo Troisi quale nume tutelare del film, ma francamente, dello spirito dell’autore di Ricomincio da tre, c’è poco. Diremmo piuttosto che È stata la mano di Dio sia il suo Amarcord. Familiare, sportivo, cinematografico e sessuale. “Non ti disunire” urla a Fabietto l’Antonio Capuano interpretato da Ciro Capano e il film, in fondo, si manifesta quale reunion proustiana dell’autore con i suoi ricordi e il suo immaginario. Una riunione che spesso è sovrapposizione tra punti di riferimento (il film che Capuano gira nella finzione, più che di Capuano, è di Sorrentino che cita Fellini), tra evocato e vocato (qui Fellini c’è, cerca volti, e quella sala d’aspetto non è solo omaggio come lo era quella del chirurgo che fa siringhe di botulino in La grande bellezza), tra immediato e mediato. C’è qualcosa di De Crescenzo nella descrizione delle dinamiche familiari, quel De Crescenzo che, con la complicità di Arbore, aveva scherzato amorevolmente su Fellini in F.F.S.S.

C’è anche un altro tipo di “riunione”: tra la fessa (anzi, la superfessa) e l’odore delle case dei vecchi. Tra quelle due risposte che segnavano la distanza tra Jep Gambardella, destinato alla sensibilità, e i suoi amici, più propensi alla carnalità. Aspetti che confluiscono in Fabietto Schisa e quindi in Paolo Sorrentino. Il suo coming of age in casa della baronessa è quello di un ragazzo attratto dal sesso e dalla filosofia, dall’interiorità e dall’esteriorità del cinema, un’esteriorità che consente di non guardarsi dentro, di non scrutare una vita scadente. Alla luce di questa considerazione, e del film, il cinema di Sorrentino si configura quale elaborazione del lutto a episodi, atto estremamente feticistico (come lo è la passione del regista per oggetti, arredi, canzoni, insomma per tutto l’armamentario pop che dissemina nei suoi lavori) con cui riempire un vuoto. È stata la mano di Dio allora è anche l’opera in cui si riuniscono conscio e inconscio, scena primaria e fuori campo. La petite mort è mostrata, inquadrata, la grand mort no, né a noi né a Fabietto (“Quando sono mortinon me li hanno fatti vedere“). Ed ecco il senso forse definitivo dell’ultimo film dell’autore di L’uomo in più: rimettere in campo il dolore, ma quello suo, quello autentico, non quello recitato, a volte palesemente artato dei suoi protagonisti. Farci i conti e offrirlo al pubblico per condividerlo con lui. Quasi una cerimonia di transustanziazione in cui “l’auteur” si offre eucaristicamente allo spettatore. Smette di essere stile e si fa corpo filmico. Come Dio. Prendete e guardatene tutti.

Sorrentino si mette a nudo e condivide il suo dolore con il pubblico.
  • sceneggiatura
  • regia
  • interpretazioni
  • emozioni
4.1

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