Noi – recensione del film di di Jordan Peele

Noi di Jordan Peele

Nell’incipit di Tempi Moderni, diretto da Charlie Chaplin nel 1936, un famoso raccordo analogico accosta un gregge di pecore ad una folla di operai che salgono le scale della metropolitana per recarsi in fabbrica. Chaplin racconta in poco meno di dieci secondi l’alienazione del lavoro operaio. Da quella stessa metropolitana, una delle tante abbandonate in America, salgono i doppelgänger di Noi, anch’essi in tuta da operai. O da prigionieri di Guantanamo (e ci sono foto che ritraggono degli individui in tuta rossa chiusi in gabbie come quelle dei conigli nel film). E sono incazzati.

Chi sono i protagonisti del secondo film diretto da Jordan Peele, dopo il successo di Get Out? Il titolo in italiano non lascia adito a dubbi, ma Us, l’originale, oltre a essere pronome, prima persona plurale, è anche l’acronimo di United States. E, in fondo, Red, l’alter ego di Adelaide (sia la prima che la seconda sono interpretate da Lupita Nyong’o) è abbastanza chiara. “We’re Americans” è la sua più che didascalica, fastidiosamente didascalica, battuta. Ma quali Americani? Quelli che non hanno voce (tranne Red, tutti gli altri “doppi” non parlano ed emettono grugniti, suoni gutturali) che, però, dal 1986 a oggi sono diventati l’humus culturale in cui si è costruita la vittoria elettorale di Trump (e di Salvini e di Di Maio e di Bolsonaro). La guerra tra poveri (e tra neri e tra donne e tra emarginati) for dummies. Sì, for dummies perché c’è poco spazio per l’interpretazione in un film in cui tutto è spiegato, a volte (come alla fine) troppo spiegato.
Magari è il segno dei tempi. E della politica. Perché quando, nel 1968, esce La notte dei morti viventi di George A. Romero, tutti son concordi nel ritenere che il film parli della guerra nel Vietnam, ma nessun personaggio lo dice.

Anche più di recente, Karyn Kusama con The Invitation (cui visivamente deve molto Noi, specie nell’epilogo giocato sulle note di Les fleurs di Minnie Riperton) ha raccontato una società vittima di neofanatismo e incapace di soffrire senza ricorrere agli spiegoni.

Qui, invece, l’incipit ci conduce nel 1986 mentre la tv annuncia “Hands Across America”, l’iniziativa che vide tenersi per mano sei milioni e mezzo di persone, una lunga catena umana di solidarietà verso i più sfortunati. Nel finale del film quella stessa catena umana si è ribaltata di segno e di protagonisti: ora sono gli umili a tenersi per mano, ma per accerchiare, circondare, uccidere, cannibalizzare (e perché no? sostituirsi a)gli integrati. Come non vedere in questa metafora qualcosa che riguarda tutti e non solo gli Americani? “Loro” sono quello che saremmo stati “Noi” se fossimo nati nel mondo di sotto, nel sud del mondo. “Loro” sono il popolo del web che urla sguaiatamente, grugnisce contro “i radical chic”, mette in dubbio la scienza, lo studio, la conoscenza, per andare dietro a un sentimento di pancia, rabbia più che altro, a una fede nel DIOnisiaco, culto che nell’antica Grecia si esprimeva soprattutto attraverso il ballo, quello che porta allo stato di ebbrezza e alla conseguente uscita dell’individuo da sé (state pensando a Suspiria di Guadagnino? fate bene). “Loro” siamo “Noi” (“loro sono noi” dice Jason, il piccolo della famiglia Wilson), gli Hyde di noi Jeckyll, gli ultracorpi invasori, non più comunisti, ma pop-ulisti. Come il Michael Jackson di Thriller sulla maglietta che indossa Adelaide da bambina è, in fondo, il doppelgänger di quello che nel 1985, appena un anno prima, scriveva, con Lionel Richie, We Are the Word per il progetto Usa for Africa. E Noi abbiamo un’unica ambizione: siamo neri che vogliono diventare bianchi (Gabe Wilson insegue il lusso del wasp Josh Tyler. Che, tra l’altro, per prendere in giro la moglie spaventata da un rumore, dice che nel giardino c’è O.J. Simpson), siamo poveri che vogliono diventare ricchi, immigrati che vogliono diventare cittadini. Noi è lotta di classi. Come scriveva Pasolini nell’articolo  Aboliamo la tv e la scuola dell’obbligo, pubblicato sul Corriere della sera del 18 ottobre del 1975, “Che cos’è che ha trasformato i proletari e i sottoproletari italiani, sostanzialmente, in piccolo borghesi, divorati, per di più, dall’ansia economica di esserlo? Che cos’è che ha trasformato le “masse” dei giovani in “masse” di criminaloidi? L’ho detto e ripetuto ormai decine di volte: una “seconda” rivoluzione industriale che in realtà in Italia è la “prima”: il consumismo che ha distrutto cinicamente un mondo “reale”, trasformandolo in una totale irrealtà, dove non c’è più scelta possibile tra male e bene. Donde l’ambiguità che caratterizza i criminali: e la loro ferocia, prodotta dall’assoluta mancanza di ogni tradizionale conflitto interiore. Non c’è stata in loro scelta tra male e bene: ma una scelta tuttavia c’è stata: la scelta dell’impietrimento, della mancanza di ogni pietà”. Un consumismo che omologa tutti e rende porosi i confini, sì che l’assistente vocale di una bianca famiglia ricca può anche far partire Fuck Tha Police dei N.W.A. (Nigga With Attitude). E allora si alzano di nuovo i muri, ma lo fanno quelli alla cui crescita culturale e sociale abbiamo abdicato, mettendo a dormire la ragione. E generando dei mostri. Che ora sono qui. Tra. Noi.

 

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