L’Ozploitation in 10 film

ozploitation

Cosa significa il prefisso “oz”? Si tratta della forma contratta della pronuncia sonora australiana (o neozelandese) della parola aussie (ɒzi con la sonora /z/ al posto della sorda /s/) con la quale si indica il cittadino australiano per distinguerlo da quello inglese colonizzatore. La cultural cringe (sudditanza culturale) che per secoli ha caratterizzato gli Australiani ha fatto in modo che aussie fosse connotato e utilizzato spregiativamente. Spesso dagli stessi Australiani.

Ozploitation risulta quindi dalla fusione tra oz ed exploitation con cui si indica un tipo di film che punta ai bassi istinti dello spettatore schiacciando il pedale del sesso e della violenza senza lesinare in dettagli espliciti sia dell’uno che dell’altra. L’autore di questo neologismo parrebbe essere Mark Hartley, regista del documentario Not Quite Hollywood: The Wild, Untold Story of Ozploitation!, il quale avrebbe raccolto il suggerimento di Quentin Tarantino (abbondantemente chiamato in causa nel film in qualità di esperto) ovvero definire aussieploitation le innumerevoli pellicole di genere (dalla commedia ocker sul tipico aussie rozzo e con un problematico rapporto con le donne, di cui Mr Crocodile Dundee rappresenterà la versione edulcorata ed esportabile, all’horror passando per il thriller e la fantascienza distopica) girate in Australia tra i ’70 e gli ’80. Il motivo di questa proliferazione di cinema in un paese nel quale negli anni ’50 si erano girati solo tredici lungometraggi e nel triennio 1963-1966 neanche uno, è di matrice politica.

Dalla fondazione dell’Australian Council of the Arts a opera del primo ministro Harold Holt nel 1967 si arriverà, nel 1975, alla creazione dell’Australian Film Commission passando per l’inaugurazione dell’AFTS, la prima scuola di cinema australiana guidata da Jerzy Toepliz. Film d’autore e film di genere invadono le sale, vengono promossi all’estero (Patrick, un horror seminale di Richard Franklin sarà presente a Cannes nella Quinzaine des realisateurs) e favoriscono le carriere di registi e attori che emigreranno a Hollywood (Peter Weir, Bruce Beresford, Phillip Noyce, George Miller, Mel Gibson e più di recente Nicole Kidman, Russell Crowe, Hugo Weaving).

ozploitation nocturno
La copertina del numero 84 di Nocturno

Ovviamente l’ozploitation si ritrova anche in pellicole più recenti (da Animal Kingdom e The Rover di David Michôd al dittico Wolf Creek di Greg McLean che trasforma in villain il protagonista dell’ocker movie con tanto di quiz alla Scream sulla cultura aussie nel secondo capitolo e questo senza tirare in ballo i remake: Patrick firmato, nel 2013 dal Mark Hartley che ha coniato il termine ozploitation; Long Weekend, Turkey Shoot), ma noi prenderemo in considerazione i primi due decenni, quelli in cui il filone si è sviluppato senza consapevolezza di esserlo. In Italia non c’è una pubblicistica sul tema (e molti dei film ozploitation non sono mai stati distribuiti), fatta esclusione per un dossier di quella riserva indiana che è Nocturno (numero 84). Pigrecoemme arriva seconda. Buona lettura.

1 – Wake in Fright di Ted Kotcheff

Quando nel 2002 venne pubblicato il saggio intitolato Prigionieri dell’Oceania – Il riscatto postmoderno del cinema degli antipodi a firma del sottoscritto, Wake in Fright non era stato ancora ritrovato, restaurato da Scorsese e riproiettato a Cannes dove aveva concorso nel 1971. La tesi del saggio era che il cinema australiano nasceva postmoderno tra istanza autoriale europea (inglese) e necessità commerciale (americana), tra alto e basso. Wake in Fright era (ed è) una scheggia impazzita, un corpo estraneo (non a caso rifiutato dalla comunità australiana), diretto dal canadese Ted Kotcheff (quello di Rambo e Weekend con il morto) e con due inglesi protagonisti. Gary Bond, quasi un sosia di Peter O’ Toole, è una sorta di Lawrence d’Australia precipitato nell’Inferno dell’outback aussie che sembra la Sicilia apocalittica di Ciprì e Maresco, con uomini che sublimano la sessualità nel gioco, le sbronze, la caccia al canguro e le risse, tutti salvo l’altro civilizzato, Doc, Donald Pleasance, artefice di uno stupro alla Deliverance. Un Inferno che, come il nastro di Moebius, ti riconduce sempre al punto di partenza e che prevede, come contrappasso, che un uomo che lavora con le parole non si faccia mai comprendere, un Inferno che è un po’ l’alba dell’uomo dove gli inserti dei canguri che stramazzano a terra ricordano quelli, flashforward, dei tapiri di 2001. Il saggio era compreso nel primo (e unico) numero dei Quaderni della Mediateca, Cinema 2001 – E dopo l’Odissea? Tutto torna.

2 – La banda della BMX di Brian Trenchard-Smith

C’è un fil rouge che lega l’ozploitation al cinema bis italiano (e non è solo il sequel apocrifo di Patrick o il filone post atomico scaturito in egual misura dai successi di Interceptor e 1997 – Fuga da New York): tentativo di emulare, con minori mezzi, generi di successo della fabbrica dei sogni hollywoodiana e l’utilizzo, frequente, di vecchie glorie o attori minori provenienti dalla Mecca del cinema. Brian Trenchard-Smith, per esempio, aveva ingaggiato George Lazenby (che era stato, una tantum, 007) per The Man from Hong Kong (al fianco di Sammo Hung). La banda della BMX, complice probabilmente anche il doppiaggio italiano ai minimi termini, si inserisce nel solco dell’adventure movie per teenager, ma la recitazione è da filodrammatica, i personaggi (i villains soprattutto) caricaturali a dir poco. Sembra una di quelle produzioni a basso costo realizzate negli Usa dagli Italiani tipo Il ragazzo dal kimono d’oro di Fabrizio De Angelis (e un brano della colonna sonora pare uscito dalle menti di altri due De Angelis: i fratelli Guido e Maurizio aka gli Oliver Onions) che pure servì da trampolino di lancio per Kim Rossi Stuart. E La banda della BMX lo fu, trampolino di lancio, per una sedicenne Nicole Kidman.

George Lazenby in The Man from Hong Kong
George Lazenby in The Man from Hong Kong

3 – Squadra speciale 44 magnum di Bruce Beresford

Diciamolo subito: la Squadra Speciale non c’è e men che meno la 44 magnum (retaggio di Callaghan, con il riferimento al quale, evidentemente, all’epoca intendevano piazzare ogni poliziesco). Trattasi di oz crime movie (uno dei pochi) firmato da quel Bruce Beresford che aveva esordito col prototipo dell’ocker comedy, The Adventures of Barry McKenzie, ma che solo con il successivo Breaker Morant, un film in costume di matrice anglosassone, sarebbe giunto a Hollywood. Dove avrebbe poi girato A spasso con Daisy e una serie di pellicole di grande professionalità, ma calligrafiche e anodine. Come gran parte delle pellicole oceaniche di quel fervido periodo, anche questa prende a modello un genere americano come il poliziesco, ma se ne allontana per violenza, tasso gore (gli intestini in bella vista del malcapitato sparato da un rapinatore all’inizio; una tortura cui Tarantino non ha potuto non ispirarsi per quella analoga di Le Iene) ed assenza di qualsivoglia morale (il migliore dei personaggi è comunque un poliziotto che ha preso bustarelle di poca entità, ma pur sempre bustarelle).

The Adventures of Barry McKenzie
The Adventures of Barry McKenzie

4 – Roadgames di Richard Franklin

Richard Franklin è stato, tra gli Australiani, il più devoto degli epigoni di sir Alfred Hitchcock che ebbe modo di conoscere durante gli studi in California. Tornato in Australia, dopo aver diretto una serie TV, un ocker movie e un softporno con John Holmes tra gli interpreti, esplode coll’horror Patrick (un prodotto emblematico del filone, in bilico come è tra thriller hitchcockiano e L’esorcista, che ha avuto, a ulteriore conferma del successo internazionale, una consacrazione del nostro cinema bis attraverso il sequel apocrifo Patrick vive ancora di Mario Landi, interpretato addirittura da Gianni Dei e Carmen Russo). Patrick è scritto da Everett De Roche col quale Franklin torna a collaborare per questo curioso omaggio a La finestra sul cortile, dove la finestra è un parabrezza di un rimorchio e il cortile è l’autostrada australiana. Come è tradizione dell’ozploitation, Roadgames rinuncia alla verosimiglianza per la sua natura postmoderna (il primo omicidio, i vari automobilisti che ritornano scena dopo scena proprio come dei vicini di casa) e ci restituisce un regista capace di costruire una grande tensione. Due anni dopo Franklin dirigerà Psycho II.

5 – Ghosts… of the Civil Dead di John Hillcoat

Ghosts… of the Civil Dead è l’esordio alla regia (A.D. 1988) di John Hillcoat (il cui western aussie The Proposal gli aprirà le porte di Hollywood, ma 17 anni dopo). Hillcoat fino ad allora aveva diretto videoclip, dei Depeche Mode e, tra gli altri, di Nick Cave che cosceneggia il film (oltre a firmare la colonna sonora e a ritagliarsi un cameo). Ghosts… of the Civil Dead è un prison movie raffreddato (nonostante la violenza) che racconta di come, lungi dal servirsene per scopi sociologici, l’esperimento di Stanford possa quasi essere usato al fine di inasprire la repressione violenta. Lo fa in 4:3, in maniera rapsodica, intervallando gli episodi con schermate che ci dicono di un’indagine di una Commissione. L’homo homini lupus quale strategia governativa e di marketing per le aziende che gestiscono la “sicurezza”.

6 – Le macchine che distrussero Parigi di Peter Weir

L’anno dopo sarebbe arrivato Picnic ad Hanging Rock e il successo internazionale, ma l’anima ozploitation di Peter Weir è in questa sua opera seconda cui qualcosa deve pure Interceptor. Più che un futuro prossimo e distopico (come George Miller), Peter Weir costruisce una dimensione parallela corrispondente alla cittadina di Paris che metonimicamente rappresenta forse un’Australia fondata sul razzismo, sul sopruso e un’autosufficienza che sfiora la promiscuità (come in Wake in Fright e, perché no?, in Calvaire di Fabrice Du Weltz) e che, su queste basi, non può che implodere su se stessa e causare la fuga. Tensione, ironia malsana e schegge incongrue quali la parentesi spaghetti western (con tanto di soundtrack morriconeggiante) fanno di Le macchine che distrussero Parigi un unicum nella filmografia di Weir (anche L’ultima onda, horror politico successivo a quello più metafisico, e inglese, di Picninc ad Hanging Rock, presenta maggior equilibrio ed un ossequio a convenzioni più esogene).

7 – Long Weekend di Colin Eggleston 

Apparentemente nell’ozploitation trova poco spazio il filone dell’eco-vengeance, fatta forse eccezione per Razorback che Russell Mulcahy diresse nel 1984 con un feroce e vendicativo cinghiale dell’outback (ma per certi versi anche Picnic ad Hanging Rock potrebbe esserne un esempio di grande levatura). Il motivo potrebbe essere che nel 1978 Long Weekend diretto da Colin Eggleston e scritto da Everett De Roche  (autentico nume tutelare del movimento) aprì e chiuse magnificamente e in un sol colpo il discorso. Nell’incipit la tv riferisce di curiosi fenomeni che manco a Bodega Bay, poi piccoli indizi (un fiammifero gettato distrattamente, l’investimento di un canguro, bottiglie di birra gettate in acqua) lasciano presagire che prima o poi la natura presenterà il conto. Peter Marcias cercano il paradiso e credono di trovarlo, ma quel paradiso è già miltonianamente perduto perché loro, gli esseri umani tutti, non hanno saputo preservarlo (e Shyamalan muto). Dall’assenza di sentimento panico al panico è un attimo. Long Weekend merita tutta la fama di cult che lo accompagna: è un vero e proprio incubo. Le scene (poco edificanti) di un matrimonio ai minimi termini si snodano su un palcoscenico naturale terribilmente incazzato.

Razorback 9 di Russell Mulcahy
Razorback 9

8 – Next to Kin di Tony Williams

In Not Quite Hollywood: The Wild, Untold Story of Ozploitation!, Quentin Tarantino definisce Next of Kina horror movie unlike any other […] it has a very, very unique tone and the closest equivalent to this tone is The Shining (“Un film horror diverso da qualsiasi altro […] ha un tono molto, molto singolare e l’equivalente più vicino a questo tono è Shining“). A Tarantino, è noto, piace esagerare: Next of Kin, però, è davvero un horror ben riuscito che unisce topoi dell’ozploitation quali il drugstore sperduto nel nulla (come in Wake in Fright) e la magione riconvertita in ricovero (come in Patrick). Non mancano jump scare costruiti magistralmente (la scoperta del cadavere nella vasca) e un po’ di Hitchcock nel twist finale. Nel ruolo di Barney, amante della protagonista, John Jarratt, futuro Mick Taylor, villain di Wolf Creek.

9 – Interceptor di George Miller

Il vessillo dell’ozploitation. Forse l’unico a entrare di prepotenza nell’immaginario collettivo, influenzando la fantascienza futura nel look oltre che nella rappresentazione grafica della violenza (1997 Fuga da New York sarebbe stato così come lo conosciamo senza Mad Max?). Ispirato a George Miller dalle tante mutilazioni e dai tanti ferimenti cui aveva assistito come medico nel Pronto Soccorso di Sidney, Interceptor è carsploitation che nella seconda parte si trasforma in revenge movie. Girato con una miseria (circa 350mila dollari) solo grazie a una preproduzione perfetta con storyboard precisissimi (abitudine che Miller ha mantenuto anche per Mad Max: Fury Road), Interceptor non ha perso un grammo del suo fascino e, ma questo lo sanno anche i meno cinefili, ha lanciato Mel Gibson nell’empireo delle star. Lo trovate su Netflix.

10 – Harlequin di Simon Wincer

Chi è Gregory Wolf? In quanto Wolf, risolve problemi, ma in quanto Robert Powell (ovvero Gesù secondo Franco Zeffirelli) lo fa compiendo dei miracoli. Nell’antica commedia dell’arte Arlecchino era visibile solo al pubblico, non ai personaggi: una sorta di personificazione della “morale” che agiva sulle coscienze più che sull’intreccio. Nick Rast, il politico interpretato da David Hemmings è vittima di una trama, politica; servitore di due padroni, il potere e il danaro, entrambi incarnati in Doc Wheelan (Broderick Crawford, vecchia gloria di Hollywood come da tradizione di quegli anni, sia in Australia che in Italia). A dirigere c’è Simon Wincer che poi emigrerà ad Hollywood per fare l’onesto mestierante (Harley Davidson & Marlboro Man, Free Willy, The Phantom), ma dietro l’operazione ci sono il solito Everett De Roche e Anthony I. Ginanne, il Corman australiano. Che un anno dopo riunirà David Hemmings (regista) e Robert Powell (interprete) per Survivor – L’aereo maledetto, altra pellicola ingiustamente dimenticata dopo essere stata titolo di punta, negli anni ottanta, della programmazione delle tv locali italiane.

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