Mia madre, il latino ed altre radici

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Non è la prima volta che la morte si affaccia nella filmografia di Nanni Moretti, anzi si potrebbe dire che dalla nascita del figlio (da Aprile in poi, quindi, visto che vita e arte, nell’opera del regista di Sogni d’oro, sono così indissolubilmente intrecciate) sia diventato un tema ricorrente. Sperimentata sulla sua pelle (la morte sfiorata a causa di un linfoma di Hodgkin e la conseguente terapia raccontata in Caro Diario), Moretti ha preso a temerla nella sua estrinsecazione peggiore (la morte indicibile, quella di un figlio, in La stanza del figlio), a metaforizzarla (la rinuncia di un Papa alla sua missione, una sorta di morte della “paternità”, in Habemus Papam) ed infine a viverla. Proprio durante il montaggio del film con Michel Piccoli, infatti, la madre di MorettiAgata Apicella, eponima del leggendario alter ego del figlio, Michele Apicella e che ricordiamo in un’esilarante scena di Aprile, venne a mancare. Tuttavia, una volta vissuto il lutto, è come se Moretti fosse riuscito anche ad elaborarlo e Mia Madre, conseguentemente, appare il suo film, forse, più sereno e riconciliato. Con se stesso, con il mondo e col cinema.

(Da questo momento in poi, se non avete visto il film, non dovreste proseguire nella lettura)

Mia madre, infatti, non è affatto un film triste. Anzi, in alcuni momenti è uno dei film più divertenti di Moretti (il set con un debordante John Turturro, l’interprete che traduce letteralmente anche gli insulti, il camera car alla cieca), ma, anche nelle scene più intime e sulla carta più struggenti, il regista sembra come in pace con se stesso, al punto di riuscire, per la prima volta, a farsi “interpretare” da qualcun altro, da un’attrice, Margherita Buy, pur “restando – lui – accanto al personaggio”.

Nanni Moretti e Margherita Buy in Mia Madre
Nanni Moretti e Margherita Buy in Mia Madre

Mia madre non è triste perché ci insegna l’importanza delle radici, delle nostre radici e la necessità di mantenerne vivo il ricordo. La madre, il latino (ovvero la lingua da cui deriva la nostra e che resta viva, pur essendo una lingua morta, grazie allo studio e all’interessamento, mentre è emblematico che colui che arriva dall’America, un paese privo di storia antica, di ricordi sia letteralmente privo), il nostro glorioso cinema del passato. Il film che Margherita gira fa pensare a La classe operaia va in Paradiso (diretto da Elio Petri, uno dei registi che Barry Huggins cita in auto durante la passeggiata notturna) e poi c’è quello striscione sul muro dell’ospedale, un’esortazione a non mollare per qualche malato, ma che in quel “Forza Mario” finale non può non far pensare ad una sorta di incoraggiamento postumo, amorevole e tenero per quanto è tardivo, a Monicelli che pure diresse un film su un’occupazione in fabbrica, I compagni, interpretato da quel Marcello Mastroianni che è stato tra i pochi a saper restare sempre “accanto al personaggio”.

John Turturro
John Turturro

Mia madre non è un film triste perché Moretti ride di se stesso e lo fa apertamente. Invita il suo alter ego femminile a rompere almeno uno dei suoi schemi (nella meravigliosa scena della lunghissima fila fuori al Capranichetta) e poi lo fa lui dietro la m.d.p. Stavolta non se la prende coi critici che parlano bene di Henry, pioggia di sangue, non se la prende con Michael Mann, non se la prende con Daniele Luchetti che gira spot pubblicitari. Stavolta è lui stesso il suo bersaglio. “Il regista è uno stronzo a cui voi permettete di fare tutto“.

Mia madre non è triste perché c’è la speranza nel futuro, in quell’ultimo, poetico, geniale scambio di battute tra Margherita (“A cosa pensi, mamma?“) e la madre, la quale le risponde (“A domani“) da un controcampo dell’inconscio che, in un sol colpo, colma il proverbiale vuoto filmico spettatoriale e quello diegetico della protagonista, ricucendo o psicanaliticamente suturando (con il raccordo) ben più che un incrociarsi di sguardi: rinsaldando un rapporto, una relazione filiale (ed il processo ha inizio quando l’incidente della lavatrice fa sì che, chiasmicamente, la rottura delle acque riconduca la protagonista nella casa/utero materna). In quell’ultimo primo piano, Margherita è serena perché ha raggiunto la socratica docta ignorantia: sa di non sapere. Sa di non sapere del legame perdurante tra la madre insegnante ed i suoi vecchi alunni, sa di non sapere che la figlia ha sofferto per amore, sa di non sapere quale sia il messaggio del film che sta girando. E, come accade sempre quando al cinema si realizza la magia, la conquistata consapevolezza della protagonista che è consapevolezza dell’autore, diventa consapevolezza nostra.

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Agata Apicella col figlio Nanni Moretti nella celeberrima scena del “cannone” in Aprile

 

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