Salverà, Jeeg Robot, l’Italia dalla commedia?

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La differenza tra Gabriele Mainetti ed i Manetti Bros. non è solo in quella vocale che introduce la seconda sillaba del cognome, ma in un approccio completamente diverso al cinema di genere. Laddove i Manetti giochicchiano sì coi topoi dei generi che, però, non hanno mai capito fino in fondo (sicché, da Zora la vampira ai vari televisivi RexColiandro, si avverte una superficialità simile a quella dei lavori di Robert Rodriguez: entrambi suscitano simpatia per un limitato periodo di tempo dopo di che sopraggiunge la noia), Gabriele Mainetti dimostra non solo di conoscerli, ma di averli assimilati ed introiettati. I generi, per i Manetti, sono tutti (in Zora, ad esempio, rifacevano pedissequamente, con tanto di colonna sonora, una sequenza in split di Superfly), mentre Mainetti, checché ne dicano uffici stampa (per motivi di lancio promozionale) e giornalisti con la memoria corta, guarda soprattutto ai generi rivisitati dagli italiani: il cinema bis nella sua estrinsecazione migliore, perché, se è vero che questa definizione designa il cinema che rifà il cinema mainstream con mezzi ridotti (e non include solo la serie B, ma si estende a tutti i tentativi, anche quelli di serie Z), possiamo anche azzardare che il bis rifà sì, ma, come avviene nei concerti in cui viene richiesto, rifà il meglio.

Si dice che anche l’Italia ha finalmente il suo supereroe ed il suo cinecomic. Il fatto che gli autori del film (Mainetti alla regia ma, fondamentali, anche Nicola GuaglianoneMenotti, al secolo Roberto Marchionni, alla sceneggiatura), più che all’universo Marvel (anche se il marketing vuole che si indichi fra i referenti insieme a Tarantino) e DC, guardino ai manga ed agli anime giapponesi, però, non è per nulla casuale. Innanzi tutto è l’immaginario nel quale sono cresciuti quelli della generazione di autori ed interpreti (anche i due cortometraggi diretti da Gabriele MainettiBasetteTiger Boy, guardano a quel mondo) e poi questo sguardo all’Oriente è in fondo quello che ha avviato una delle stagioni migliori e più floride del cinema di genere italiano: quella dello spaghetti western (Per un pugno di dollari remake apocrifo di La sfida del samurai di Akira Kurosawa).

Perché questo è Lo chiamavano Jeeg Robot: un perfetto, inappuntabile e riuscitissimo spaghetti cinecomic. Un lavoro che non insegue modelli americani, come spesso fanno le produzioni di Luc Besson (al cui Leòn, gli artefici del film dichiarano di essersi ispirati soprattutto per la relazione tra il protagonista e la ragazza), ma li rielabora secondo una sensibilità che è solo nostra, riuscendo a farsi racconto glocal senza snaturarsi. Ed è per questo che, al netto degli ammiccamenti, il film di Mainetti è al poliziottesco (altro filone che partendo dall’imitazione di modelli esteri è riuscito, grazie a maestrìa e genio, a farsi “genere”) che si ispira più di ogni altra cosa. Lo Zingaro, il villain dipinto da un debordante Luca Marinelli, è molto più vicino al Vincenzo Moretto, detto er Gobbo che Tomas Milian impersonò in Roma a mano armata e nel successivo La banda del gobbo, che al Joker cui si fa cenno per il look della scena circolata in rete in cui il “cattivone”, ex componente del cast di un’edizione di Buona domenica (che tutti confondono col Grande Fratello, gag che dice, meglio di analisi sociologiche, quanto il nostro immaginario catodico si sia appiattito ed omologato al punto di essere sovrapponibile), canta Un’emozione da poco, brano che Anna Oxa portò al Festival diSanremo del 1978 e con un look che, forse, è la vera fonte di ispirazione di Marinelli.

Dal poliziottesco arrivano il racconto della periferia e dei suoi abitanti, la parabola di un’autarchia più necessaria che cercata in un contesto in cui lo Stato è assente e le uniche due presenze, una evocata (lo psicologo dell’Istituto in cui è stata ricoverata Alessia da piccola) ed una mostrata (la volante che provoca l’incidente in cui rischia di perdere la vita una bambina e la squadra speciale che ferma il furgone col quale Ceccotti cerca di allontanare il pericolo), fanno danni. A quegli anni si ricollegano anche le scelte musicali che oltre alla succitata Oxa, puntano, in momenti topici del racconto, su tre brani del 1982: Non sono una signora cantata da Loredana BertèLatin Lover di Gianna Nannini  e, gran finale, Ti stringerò di Nada ad impreziosire la divertente scena, (analoga a quella della mattanza di Hitgirl in Kick-Ass di Matthew Vaughn, sulle note di Banana Splits dei The Dickies) in cui lo Zingaro filma la sua palingenesi come “cattivo coi superpoteri”, vieppiù acconciato come uno Ziggy Stardust con un’ustione al posto della saetta rossa.

Sicuramente la performance di Luca Marinelli, all’insegna dell’overacting proprio come quelle di Milian nei ’70, si fisserà nella memoria del pubblico, ma anche quella di un Claudio Santamaria (forse mai così in parte) combattuto tra la sottrazione espressiva e l’eccesso fisico, non è da meno. Quel bisogno di (super)eroi che era di quegli anni (fossero essi il commissario Betti o i giudici che combattevano la mafia) oggi sembra spento e sconfitto dall’assuefazione, ma resta la proiezione (sulla parete) di un inconscio desiderio di giustizia che solo un’in/cosciente come Alessia (una sorprendente Ilenia Pastorelli che viene dal Grande Fratello non da Buona domenica) può far sì, con il superpotere più grande di tutti, l’amore, che diventi realtà. Il punto ora è un altro: capiranno i produttori (che hanno sghignazzato, nessuno escluso, di fronte ad un progetto che, alla fine, Mainetti si è autoprodotto) la lezione?  L’Italia ed il cinema italiano hanno più  bisogno di eroi che di personaggi medi(ocri) come quelli che infestano la com/media.

 

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