Il vizio della speranza di Edoardo De Angelis – Recensione


«Mister’, mister’, scavez’ a per’» recita uno dei brani, bellissimi, scritti da Enzo Avitabile per la quarta regia (e 1/3 se contiamo uno degli episodi di Vieni a vivere a Napoli) di Edoardo De Angelis. E De Angelis, effettivamente, indaga il mistero a piedi scalzi. Vulnerabili. Esposti. Agli strali di parte della critica italiana. Alcuni definiscono Il vizio della speranza un’opera controversa, ma è il giudizio su di essa ad esserlo, non l’opera. Che invece rivela una maturità incredibile del regista di Indivisibili e soprattutto il coraggio di osare e andare fino in fondo in un territorio minato: quello della fede, della spiritualità e del miracolo.

Un rischio, quello di apparire “pro vita”, che crediamo sia stato ben calcolato dagli sceneggiatori De Angelis e Umberto Contarello, ma fermarsi a questo aspetto del film sarebbe operazione decisamente superficiale (perché se è vero che un personaggio dice “i figli hanno bisogno delle mamme” è vero anche che dopo ascoltiamo altri affermare “i figli sono anche di chi li vuole, non solo di chi li fa“). Il proliferare di personaggi chiamati come le madonne (Maria, Fatima, Virgin) più che una ridondanza, va considerato alla luce di un culto, non di una religione, quello mariano, che in Campania conta sette madonne, sette sorelle, figlie di Sant’Anna e San Gioacchino (“Beata quella Sant’Anna, sette figlie, tutte madonne”). Tra le sette Madonne venerate in Campania, la Madonna di Montevergine è detta anche Mamma Schiavona (“la libertà è sopravvalutata; la schiavitù è così bella, con le regole, le punizioni” dice Zi’ Marì, un’incredibile Marina Confalone in un ruolo alla Samuel L. Jackson) ed è nera come nera è la maggior parte di donne che Zi’ Marì usa per il suo traffico di bambini e che Maria traghetta lungo un fiume che potrebbe essere lo Stige.

Under Electric Clouds di Aleksej Alekseevič German

 

Soldato di carta di Aleksej Alekseevič German

Perché i luoghi in cui si muovono queste anime dolenti sono un Inferno, a volte pare l’inferno del Vietnam di Coppola, quello di Apocalypse Now, un universo distopico che potrebbe essere quello di Mad Max o dei suoi epigoni postapocalittici del cinema bis italiano o ancora di Il pianeta delle scimmie (i resti dei cavallini di una giostra, di una civiltà del gioco, nella sabbia come la testa della statua della libertà, ancora la libertà), un luogo liquido e grigio come quelli di Aleksej Alekseevič German (Soldato di cartaUnder Electric Clouds), il 2027 di I figli degli uomini di Alfonso Cuarón (che la fotografia di Ferran Paredes Rubiov richiama anche visivamente), un mondo popolato di sole donne, di cui molte gravide (Flowers in the Window, videoclip dei Travis).

Donne che fanno figli, donne che vendono figli (o che vendono le figlie come oggetto sessuale o come incubatrici), e donne che li comprano. Donne, attrici meravigliose (Pina Turco è bravissima e lo sono la Confalone e Cristina Donadio che mostra il suo corpo senza remore come Tig Notaro), personaggi che De Angelis ama e di cui si prende cura (e se in Indivisibili, come notava Corrado Morra, il regista era tra i primi a soccorrere le sorelle durante la processione in cui una delle due brandiva il coltello, qui se ne intuisce la presenza nell’inquadratura post titoli di coda). In questo universo in cui l’umanità sembra non trovare casa, tre brandelli di esseri umani cercano di fare la differenza, formano una famiglia. Una famiglia sacra che risponde alla dissacrazione così di moda. De Angelis ha il coraggio, in una società che non è più politicamente corretta, che sbandiera il cinismo e il nichilismo come vessilli dell’intelligenza (e in cui “è ‘na jastemma ‘a parola ammore”), di parlare di speranza. E la speranza, come la tenerezza citata da Renato Carpentieri alla cerimonia dei David di Donatello, è rivoluzionaria. Il vizio è forse anche quello dell’autore di sperare in un cinema che possa migliorare lo spettatore, che possa mostrargli un altro punto di vista, non coccolarlo in quello che già ha. Ecco perché, agnostici o atei che si possa essere, non si dovrebbe rifiutare un film italiano così coraggioso e con momenti di rara intensità (la rivelazione della sposa, la serata nella giostra).

Il vizio della speranza
Il vizio della speranza
I quattrocento colpi di François Truffaut

Un’opera che non intende catechizzare, ma guidare, condurre verso una rivelazione, un’epifania. “E questo è nascere”. O rinascere. Vedere spuntare il sole di nuovo, quando si pensava che nulla potesse squarciare il cielo plumbeo di una vita ai margini.

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