The Fabelmans di Steven Spielberg – La recensione

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Abbiamo solo perso la bobina del film di famiglia nel corso della vita“.
Lo dice Nancy Spielberg, sorella di Steven nel documentario HBO Spielberg di Susan Lacy. Quella bobina, dolorosa, ma anche catartica, il regista di E.T. e Schindler’s List, l’autore che maggiormente ha influenzato l’immaginario dai ’70 in poi, l’ha ricreata, a modo suo, in The Fabelmans, l’ultimo meraviglioso (o dovremmo dire fabel/favoloso) film da lui diretto.

L’incipit del film alza immediatamente l’asticella dell’incredibile: il piccolo Sam, davanti al cinema in cui sta per recarsi a vedere Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. De Mille, si trova tra il padre che gli spiega la magia del cinema dal punto di vista scientifico (la persistenza retinica) e la madre che, invece, gli dice “i film sono sogni che non si dimenticano mai“. Fin da subito, quindi, il protagonista oscilla (“posso dormire con l’oscilloscopio?” chiederà ai genitori di ritorno dalla visione del suo primo film in sala) tra mente razionale e mente emozionale. La sintesi che l’eroe di The Fabelmans (e Spielberg stesso nel corso della sua vita e carriera) raggiungerà sarà, come sostiene la Dialectical Behavioral Therapy (DBT), la “mente saggia”. Non senza l’aiuto di un ment/ore “mitico”: John Ford (uno straordinario David Lynch). Che non urlerà “non ti disunire“, come fa Antonio Capuano rivolto a Fabietto Schisa in È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino. O forse sì, perché gli indicherà la strada per non restare scisso tra ragione ed emozione, per tenerle insieme. La via per l’ “interessante” non è mai quella di mezzo: o l’orizzonte basso o l’orizzonte alto, come a dire o la grandezza/ambizione o il disastro/crollo. L’inquadratura in asse rappresenta la mediocrità. E, nell’ultima inquadratura (da brividi come gran parte delle idee di regia in questo che, una volta tanto, non si fa fatica a definire capolavoro), non più Sam, ma Spielberg stesso aggiusterà il tiro in modo evidente e muoverà la macchina dal basso verso l’alto affinché l’orizzonte verso il quale si incammina il protagonista di spalle sia quello del successo.

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Il film di Sorrentino finisce con un treno, questo, col treno, invece comincia. Perché tutto ha avuto inizio da un treno; un treno, quello della Ciotat, che parve arrivare in faccia allo spettatore, così come quello elettrico regalato dal padre a Sam va proprio incontro al bambino. Il quale, però, a differenza degli spettatori della prima proiezione Lumière secondo la leggendaria ricostruzione, non scappa, resta lì incantato perché sa che quel modellino non si schianterà contro il suo viso, ma devierà a pochi metri da lui, uscirà fuori (dal suo) campo (visivo).

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Lo scontro tra un treno e un’auto è la scena primaria del piccolo Sam, quella che dovrà ri-produrre per superare il trauma. Ma il protagonista scoprirà a sue spese altre scene primarie, altri scontri, stavolta tra corpi, altri traumi. E lo farà svolgendo e riavvolgendo la pellicola western girata con gli amici ( un po’ come i Lumière di Demolition d’un mur, ma anche come il Truffaut di Les mistons) e poi rifacendolo con l’home movie girato durante il campeggio in famiglia, quando, come il Thomas di Blow Up scoprirà l’indicibile che è sfuggito all’occhio. Indicibile sì, e Sam non lo dirà, non monterà quelle immagini, per lui il cinema è la vita senza le parti dolorose. Ma è solo un’illusione. Dalla censura alla cesura, il passo è breve.

Sam, dopo averne sperimentato la potenza dell’illusione, avrà piena (e spaventosa) consapevolezza della capacità maieutica del cinema, quando Logan e Chad, i bulli antisemiti che lo perseguitano a scuola, si sentiranno nudi di fronte al film della festa sulla spiaggia in cui li ha ritratti. E per motivi diversi. Nudi, come lui di fronte alle immagini della madre insieme con lo zio Bennie. Il cinema, quindi, ti permette di fuggire dalla realtà, ma ti ci può anche riportare bruscamente.

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Come Frank Abagnale jr., in Prova a prendermi, scappa dalla sua vita trovando conforto nella continua reinvenzione di sé attraverso la truffa, così Spielberg, colpito dal dramma familiare del divorzio dei suoi genitori, è fuggito nel cinema, si è allontanato soprattutto dal padre responsabile, per lui e le sorelle, di quella separazione. Il sacrificio incredibile dell’ingegner Arnold, innamorato a tal punto della sua Lea da lasciarla libera di sposare il suo miglior amico (“tua madre ha sposato il mio amico Jack Barnes” rivela Frank Abagnale sr. – un immenso Christopher Walken – al figlio che ancora cerca di rimettere insieme la famiglia distrutta), ma catalizzando il risentimento dei figli contro di sé, in The Fabelmans, però, non è raccontato. Una censura che, stavolta, rappresenta una sutura. Dopo una carriera trascorsa a raccontare di padri assenti e figli che “ci provano” (si pensi anche al terzo capitolo delle avventure di Indiana Jones e al suo incontro/scontro col padre interpretato da Sean Connery), con The Fabelmans Spielberg compie il gesto definitivo. Il film è sì dedicato alla madre del regista (mentre Salvate il soldato Ryan fu dedicato al padre: era “la sua guerra“), cui evidentemente riconosce l’importanza avuta nell’incoraggiarlo a seguire il suo lato artistico, ma è, inevitabilmente, anche l’opera con la quale Spielberg ricompone una frattura, cuce quella lacerazione che tenne lui e il padre lontani per circa 15 anni. Sam sa. Sam comprende che quel “qualcosa di sbagliato” che tormenta il padre non è lo stesso “qualcosa” che lui ha risolto praticando dei minuscoli fori nella pellicola e attraverso i quali lasciar passare la luce. Quel “qualcosa di sbagliato” è senza soluzione persino per un ingegnere brillante come il padre. Ed è con lui che Sam si trasferisce a vivere. L’invenzione cinematografica gli permette di non perdere la bobina del film di famiglia.

  • sceneggiatura
  • regia
  • interpretazioni
  • emozioni
4.9

Arte e famiglia

La vita di Spielberg, e di chiunque ami il cinema, in un unico film.

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