Divide, l’ultima fatica dietro la mdp di Martin Scorsese. E fatica non è parola utilizzata a caso, vista la genesi sofferta di quest’opera che il regista aveva in animo di fare fin dai tempi di L’ultima tentazione di Cristo, quando l’arcivescovo di New York gli regalò il libro omonimo di Shusako Endo. Nel libro/intervista scritto da Scorsese con Richard Schickel, Conversazioni su di me e tutto il resto, edito per i tipi della Bompiani nel 2011, infatti, è frequente il rimpianto per il continuo mancato avvio di questo progetto cui il regista ha sempre tenuto tanto. D’altro canto, la fede è da sempre il tema ricorrente di Scorsese (che rinunciò al seminario per fare il regista), di un cinema, il suo, costellato, in fondo, di parabole di martirio, redenzione e anche di resurrezione (pensiamo a Casino). Il problema riscontrato nelle recensioni, sia positive che negative, ci sembra quello di essersi fermati a questo aspetto (il dissidio, il rapporto dell’autore col suo credo), forse il più superficiale, della pellicola.
Perché Silence parla di fede, certo, ma, e come potrebbe essere altrimenti? parla anche, e soprattutto diremmo noi, di cinema. È un film decisamente complesso, non facile, forse il più respingente tra i lavori riusciti di Scorsese (non fanno testo quelli, come Kundun, The Departed, Shutter Island, Hugo Cabret, che, apparendoci meno riusciti, ciascuno per motivi diversi, respingiamo in quanto estranei alla poetica dell’autore) perché, forse, davvero qui Scorsese mette a nudo la sua fede nel cinema e lo fa in un momento storico in cui proprio il cinema, come racconto affidabile del presente, pare vacillare. Si è detto di uno stile scarno, quasi giansenista, per nulla assimilabile al gesto registico spesso barocco cui ci ha abituato il regista di Quei bravi ragazzi ed al quale sembrava ritornato con The Wolf of Wall Street, ma questa osservazione, del tutto condivisibile, mette in evidenza un elemento che, lungi dall’essere un difetto, rappresenta un motivo di riuscita ulteriore della messa in scena, coerente col tema. La spiritualità, la fede sono, siamo tutti d’accordo, un fatto privato, ma la religione è una mise en scène spesso fastosa, “hollywoodiana”, a dispetto della morigeratezza che qualsiasi credo predica ai suoi proseliti. Accanto ad un filmico e ad un profilmico più essenziali del solito, troviamo, tuttavia, immagini di violenza più crude, meno grafiche di quelle dei gangster movie, e, per questo, più insostenibili. Se la spiritualità è intima e la religione è uno spettacolo, il proselitismo di ogni Confessione è, fisiologicamente, violento. La conversione parte da una presunzione di superiorità che già di per sé è arroganza. Come quella dell’Occidente deciso a riscrivere la Storia nel suo verso (da sinistra a destra come suggerisce la plongée sulle scale bianche attraversate, nella direzione suddetta, da tre caratteri neri).
Come quella di un gesuita che, narcisisticamente, si rispecchia nel volto del Cristo nella scena in cui Padre Sebastião Rodrigues chino su uno specchio d’acqua vede riflesso il volto dipinto del figlio di Dio, Sacra Sindone liquida cui fa da controcampo un’inquadratura, quasi in contreplongée, del primo piano del protagonista con dietro l’abbagliante luce del Sole.
Forse è proprio questa scena a rappresentare il punto di svolta nell’esegesi della pellicola. Lo specchio d’acqua in cui si riflette Padre Rodrigues altro non è che lo schermo sul quale ogni spettatore lacanianamente riflette sé stesso e la prova è data proprio da quel controcampo in cui dietro il volto del gesuita c’è la luce, come dietro il volto di ciascun spettatore c’è la luce del proiettore. Ma possiamo noi spettatori di cinema dirci per questo, (per il fatto di poter vedere, ri-vedere, pre-vedere, vedere da più angolazioni) Dio? Certo che no. Perché il nostro potere ci è dato in dono per procura. Ad essere onnisciente, onniveggente, nel dispositivo cinematografico, è solo l’autore, il creatore. Martin Scorsese sembra proprio voler riaffermare questo, in un’epoca in cui, invece, l’immagine non pare più essere una certezza nella narrazione audiovisiva e lo spettatore si trova spesso a doverne dubitare. L’immagine è sacra, ci dice Scorsese, e si può solo fingere di calpestarla, la si può anche tradire di continuo, ma mai perdendo la fiducia in essa (come fa Kichijiro, colui che, come il Giuda di L’ultima tentazione di Cristo, riesce attraverso il suo sacrificio a far fare la cosa giusta al “figlio” di Dio). Lo spettatore guarda impotente (come Rodrigues e Garupe osservano immobili una rappresentazione apocrifa del Golgota, anche questa immersa nell’acqua), ma non deve dubitare.
Non deve sentirsi abbandonato dall’apparente silenzio dell’autore (o dall’apparente esaurimento dell’ispirazione). Bisogna credere in lui e nella sua regia perché alla fine, dopo aver ascoltato diverse voci narranti (quella di Padre Ferreira, di Padre Rodrigues e quella di un mercante olandese), solo lui, l’autore, come Dio (come recita la battuta finale), può dirci la verità, può regalarci una rivelazione. E può farlo attraverso l’immagine, attraverso quell’inquadratura finale, un movimento in avanti che sfonda le pareti della bara per mostrarci un particolare (un po’ come lo zoom finale di Complotto di famiglia di Alfred Hitchcock, omaggiato da un’analoga inquadratura in Omicidio in diretta di Brian De Palma, che ci mostra ciò che è invisibile a occhio nudo ed a distanza) che confuta l’abiura e relega anche questa nell’ordine della messa in scena restituendoci la fiducia nel cinema, continuamente dato per morto e continuamente pronto a risorgere.