All’Institut français di Napoli, Adieu au langage di Jean-Luc Godard

godardNell’ambito del festival ‘O Curt, giovedì 19 novembre alle ore 21:30, all’Institut français di Napoli, Corrado Morra, docente di Sceneggiatura della Scuola di cinema Pigrecoemme, presenta Adieu au langage, l’ultimo film di Jean-Luc Godard.
Ennesima, suggestiva e spietata riflessione sulla necessità di ridefinire, attraverso il cinema, i linguaggi per comprendere il mondo e per far luce tra le pieghe oscure dei nostri cuori, Adieu au langage ha in sé i crismi di un’istanza non più procrastinabile: quella di riformulare, definitivamente e radicalmente, prima di ogni cosa la lingua stessa per rappresentare e ripensare il mondo e la sua conflittuale complessità.
E la rappresentazione – potremmo dire con Aristotele – è innanzitutto la risposta alla constatazione di un’assenza, e in tal senso l’estetica è proprio la risposta a quello che non c’è, che nel caso di Godard coincide da sempre con un’idea di cinema (perturbante e pur salvifica, immateriale e corporale), come luogo privilegiato dove si intreccino aisthetiché, ossia l’immaginazione dell’inesistente, e logistiché, ovvero la potenza visionaria della capacità linguistica, che riesce a spingersi fino a dire l’inimmaginabile; il cinema come avamposto “politico” di conflitti, ma soprattutto, il cinema come antifona sinestetica all’arbitrio del caos. E al riverbero osceno del silenzio.
Di seguito il testo di Corrado Morra in catalogo.

GODARDORAMA

Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
(…) Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
Pier Paolo Pasolini, Io sono una forza del Passato

Adieu au langage, come ironicamente ha scritto lo stesso Jean-Luc Godard, è la storia di una donna sposata che incontra un uomo.
Nascerebbe da tale circostanza una sofferta relazione amorosa, dove si intrecciano il senso della morte, l’uguaglianza della defecazione, il desiderio e l’assenza del desiderio, pensieri sulla politica del Novecento, il cinema come soglia della morte, la potenza della musica sinfonica, il discorso sul doppio, il segreto della pittura, il mondo visto da un cane…
La dissoluzione del discorso amoroso, narrata attraverso la destrutturazione del linguaggio è operazione che, dopo L’Année dernière à Marienbad, ha conosciuto anche di recente, e prima di quest’ultimo Godard, un’emozionante esplorazione nel Terrence Malick di To The Wonder. Ma in Godard l’inganno di estetizzare lo struggimento (che nell’autore americano finiva col diventare una sorta di patina anestetizzante del dolore) è superata da un’ipertrofia di visioni, di misure, varietà di ottiche, di espedienti, che determinano un testo, insieme, sporco e perfetto, promiscuo e asettico, sfilacciato e corposo, dove ogni tentazione di accompagnare lo spettatore nei meandri della catartica e assolutoria immedesimazione attraverso il linguaggio del cinema, viene frantumata dalla forzatura perpetrata in ogni lasso sulla grammatica, sui raccordi (in tal modo anche la capacità simpatetica dell’allegretto del secondo movimento della Settima sinfonia di Beethoven diventa qui lo sberleffo dell’emozione, il reiterato pretesto per un singulto, il singhiozzo fatale di un nesso negato).
Ma tutto questo è solo in parte vero perché Adieu au langage è prima di tutto un’analisi malinconica sulla cattività dell’esserci.
Un momento chiave del film, in tal senso, è quello in cui Godard fa dire a Josette delle parole rivelatrici: “Sono qui per dirvi di no. E per morire”.
È in quella negazione, rivolta a noi tutti, la professione di un’indipendenza dall’esserci, che condanna inevitabilmente il linguaggio a inutile balbettio, perché il nulla (il nulla dei rapporti sociali, il nulla delle sintassi, il nulla della parola non detta, il nulla dell’amore) in Godard è invece fulcro vitale del discorso, accolto e custodito, fino all’ultimo respiro, fino al primo respiro di un bimbo, che nasce e piange, fino all’ultimo guaito di un cane (su cui Adieu au langage di fatto termina), cane come figlio dell’uomo, ma che non darà discendenza, dicendo addio in tal modo all’evoluzione, cioè al linguaggio della specie.
In un altro punto, la voce di Gédéon rivolta a Josette dichiara fuori campo: “Je suis à vos ordres”. La donna è dietro a un’inferriata, che la costringe in una sorta di gabbia, che è come se la chiudesse in un bel paesaggio lacustre che, alle sue spalle si scorge in campo lungo, rivelandoci invece che il suo è lo spazio angusto di una prigione e che quella prigione è l’inquadratura del mondo. Anzi: è il mondo.
Ancora affidato all’acusma del fuori campo, il film si sofferma poi sul significato in russo della parola kamera: prigione. Ed è qui che diventa evidente come per Godard il cinema, ossia lo sguardo della camera, sia costituzionalmente una macchina di coercizione e di controllo, un dispositivo foucaultiano di sorveglianza, contro cui muovere sempre. E la coscienza metatestuale dei personaggi in Adieu au langage, che proprio in tal senso rivelano di “detestare i personaggi”, è il segno di tale rivolta.
Ma a quali ordini sarebbe disposta davvero ad affidarsi quella voce fuori campo, in un film senza trama, se non alla deissi imperiosa di quella donna, che non è altro che il simbolo della madre-matrigna-matrice della prigione del linguaggio?
Se è il linguaggio l’origine del mondo (la vagina dipinta da Courbet sarebbe la parola primigenia, il mito), il termine con cui gli Apache, tanto amati dal regista da bambino, indicavano il mondo è foresta ed è a quell’immagine antagonistica e inesplorabile dell’altrove che Godard, attraverso il point of view di un cane, affida il caos e l’entropia del suo discorso definitivo.
Godard, con le parole di Claude Monet, ci ricorda infine che lo scopo profondo della rappresentazione è quello di “dipingere il non vedere”. Come in una foresta fitta. Ed è proprio quello che, dipingendo con la luce, l’uomo di cinema Godard fa ancora, con una forza e una disperata vitalità che pochi altri hanno: girare il non vedere. E proprio quel non vedere è la rivolta contro l’alienazione e la dipendenza dai nessi, attraverso un processo di definitiva frantumazione del linguaggio. Ma quelle due o tre cose che so di lui, mi permettono di ipotizzare che in Godard, proprio questa dissoluzione sia il segno della tensione verso la liberazione politica dei corpi, prefigurata già da quell’antico spettro che, dal Manifesto in poi, si aggira per l’Europa: il Comunismo. Segno che, derridianamente, è anche l’unica manifestazione possibile per giungere alla conoscenza e all’amore di quel fantasma che ci ostiniamo a chiamare cinema.

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