10 film necessari per una definizione di noir

10 film necessari per una definizione di "noir"

Il noir non è un genere. Il noir è una categoria critica che nasce nel 1946. Un nome conferito dall’esule italiano in Francia Nino Frank ad un nucleo di pellicole prodotte in America e fortemente influenzate dalle caratteristiche etiche ed estetiche dell’espressionismo tedesco nonché da quelle morali di un esistenzialismo caro ai francesi.

Nel 1972 Paul Schrader, non ancora affermato sceneggiatore e regista, scrive un libro, Notes on Film Noir, in cui limita cronologicamente la vita del noir cinematografico dal 1941 (anno di uscita di Il mistero del falco di John Huston) al 1958 (anno di L’infernale Quinlan).

Ma le noirceur è ben lungi dall’esaurirsi in quell’epoca ed è forse l’atmosfera filmica più resistente, perché se western, horror, fantascienza, alternano stagioni di grande spolvero narrativo ad altre di oblìo, il noir, forse proprio in quanto non genere, non si piega alle mode, ma è sempre lì, informa cinematografie, fasi storiche, politiche.

Questa, quindi, è una lista di film per definire l’indefinibile.

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A proposito di formazione audiovisiva

Ripropongo qui quanto da me scritto nel catalogo di ‘O Curt 2008 a proposito della formazione audiovisiva e delle scuole di cinema.

Nell’ambito di ‘O Curt torna, dopo la piacevole prima esperienza dell’anno scorso, la sezione dedicata ai lavori realizzati dagli studenti delle scuole di cinema italiane. Otto opere che spaziano dalla sperimentazione al comico, dal recupero delle tradizioni orali allo spoof e che si cimentano coraggiosamente con i linguaggi del “cinema cinema”, del documentario, della televisione e, consapevolmente, con i tempi ristretti di quel prodotto, riservato a pochi e selezionatissimi fruitori, chiamato “cortometraggio di fine corso”.

Tutte le opere presenti in rassegna – così come quelle che ci sono pervenute, ma che per motivi di tempo non saranno proiettate – sono visibilmente permeate di entusiasmo, di sapienza, di padronanza tecnica e linguistica, e se, com’è, possono apparire imperfette allo spettatore occasionale, è solo a causa delle non illimitate risorse economiche e tecnologiche a disposizione delle scuole che le hanno prodotte. La loro imperfezione, insomma, non può di certo essere imputata al lavoro approssimativo dei docenti o alla poca passione in esse investita dai loro giovani autori. Già, perché in Italia, a parte pochissime eccezioni non sempre degne di lode, le scuole di cinema sono strutture indipendenti e private, arditamente tese verso la folle e molteplice mission di formare professionisti, diffondere la cultura del cinema e, al contempo, tenere in vita un mercato che ruota attorno ad una merce, la formazione alle arti ed ai mestieri del cinema, che in Italia è ora un bene di lusso ma che, in una società evoluta, andrebbe assimilata all’istruzione di alto livello e pertanto considerata un bene irrinunciabile.

Nella patria di Pastrone (l’inventore, diciamolo, del blockbuster), di De Sica, Rossellini e Fellini, ci si lamenta da tempo immemore di un cinema nazionale debole ed ansimante, e da più parti si biasimano le errate politiche statali sulla cinematografia. Produttori ed autori levano le voci per chiedere più attenzione e più denaro ed il termine di paragone, nei discorsi tra gli studenti così come nei consigli di amministrazione delle case di produzione, è l’industria cinematografica statunitense. Ci si dimentica quasi sempre però di riflettere sulla formazione.

Negli Stati Uniti esiste, è vero, un’industria efficiente (e crudele) che crea arte e ricchezza, ma quest’industria arruola cineasti che prima di mettere piede in uno studio anche solo come interni non pagati possiedono già una formazione solidissima, acquisita nelle organizzatissime scuole di cinema della West Coast e nelle prestigiose accademie dell’East Coast.
Gli storici del cinema sono concordi nell’affermare che negli anni ’70 Hollywood fu salvata dai Movie Brats, i primi autori spudoratamente autoconsapevoli del cinema americano. Ebbene, costoro – alcuni dei quali rispondono ai nomi di Martin Scorsese (Master of Fine Arts presso la NYU’s Tisch School of the Arts), Francis Ford Coppola (M.F.A. in film directing conseguito alla UCLA Film School), John Milius, George Lucas (entrambi ex studenti alla University of Southern California School of Cinema-Television), Brian De Palma (Sarah Lawrence College) – arrivarono alla regia di opere commerciali dopo aver sgobbato sui banchi, sui set, e nelle sale di montaggio delle scuole di cinema.
Possiamo, poi, non trarre delle conclusioni interessanti dopo aver constatato che cineasti importantissimi e così diversi tra loro quali il roboante John McTiernan, l’oscuro David Lynch, il filosofico Terrence Malick, il tormentato Paul Schrader, l’integrato Edward Zwick, il magistrale Janusz Kamiński, il cult delle nuove generazioni Darren Aronofsky, il discontinuo Martin Brest e l’unica donna al modo ad aver diretto almeno un paio di Blockbuster, Mimi Leder, si siano tutti diplomati presso lo stesso istituto di istruzione cinematografica avanzata (l’AFI Conservatory)? No, non possiamo. Quel che possiamo, invece, è augurarci, per il bene del nostro cinema, che in Italia si investa di più nella formazione cinematografica, magari riconoscendo il ruolo di quei centri di formazione cine-televisiva che già da tempo operano sul campo ottenendo risultati.