10 memorabili fotografi sul grande schermo

obiettivo su

<< Il cinema è la verità 24 fotogrammi al secondo>>. Lo ha detto Godard. La fotografia, quindi, componente essenziale dell’immagine cinematografica, ne è l’unità minima. Ma, pur essendone componente essenziale, resta, se non ontologicamente, semioticamente qualcosa di diverso. La fotografia non è né illude di essere la realtà, la fotografia è l’attimo cristallizzato di essa. Il cinema ha dalla sua l’illusione di realtà trasmessa allo spettatore (per non rompere la quale il cinema classico approntò una serie di regole da rispettare: dal divieto di sguardo in macchina a quello di scavalcamento di campo passando per i raccordi) grazie al movimento. Per molti, tuttavia, la narrazione cinematografica non costituirebbe componente essenziale del processo di valutazione: da DellucDeleuze sarebbe nell’immagine allo stato puro e quindi nella fotogenia che andrebbe ricercato il senso ultimo anche di un’opera cinematografica (come della fotografia). Sia o meno così, il cinema ha sempre conservato un legame ombelicale (e ci mancherebbe) col procedimento fotografico e col personaggio del fotografo. Il 7 ottobre prossimo partono i nuovi moduli dell’ormai decennale corso di fotografia di Pigrecoemme. Tra mostre, pubblicazioni, esposizioni, incontri, abbiamo, senza ombra di dubbio, formato più di una generazione di fotografi. In questa playlist cerchiamo di raccontarvi il rapporto, sempre molto stretto, tra il cinema ed i fotografi.

1 – Thomas (Blow Up di Michelangelo Antonioni)

« L’idea di Blow-Up mi è venuta leggendo un breve racconto di Julio Cortázar. Non mi interessava tanto la vicenda, quanto il meccanismo delle fotografie. La scartai e ne scrissi una nuova, nella quale il meccanismo assumeva un peso e un significato diversi>>. Thomas, fotografo di moda, ma non solo, scoprirà, a sue spese, che visibile ed invisibile non sempre corrispondono a reale e non reale. Ciò che si vede potrebbe non essere (l’omicidio) e ciò che non si vede potrebbe essere (la partita di tennis). La fotografia, propaggine meccanica dell’occhio non può che fallire come l’occhio stesso. Dei mimi chiudono il film ed un mimo apre e ci presenta Harry Caul in La conversazione che, per ammissione dello stesso regista Francis Ford Coppola, da Blow Up fu ispirato.

https://www.youtube.com/watch?v=eOXa5wi0nQs

2 – Leon Bernstein (Occhio indiscreto di Howard Franklin)

Bernzy (ispirato alla figura del vero fotoreporter Weegee, al secolo Arthur Fellig) è alla ricerca frenetica, ossessiva della realtà, quella notturna, quella che la maggior parte della gente può vedere solo ritratta dalle sue foto sui giornali. Leon riesce ad arrivare sui luoghi dei delitti insieme o prima della polizia ed ha una camera oscura allestita nel bagagliaio della sua auto, ma cerca anche di catturare la bellezza della notte in scatti che vuole raccogliere in un libro. Bernzy non ha una vita sua e questo gli consente di mantenere il distacco giusto per raccontare in fermi immagine la verità, ma quando la vita, nelle forme dell’innamoramento, irromperà nella sua esistenza, lui stesso non riuscirà a percepire più la differenza tra realtà e simulacro di realtà e finirà nei guai. Da Public Eye (titolo originale del film), occhio pubblico al servizio di tutti, si trasformerà in Private Eye, investigatore, occhio al servizio di una sola persona, occhio che vedrà, per sua sfortuna, solo quello che gli altri vogliono veda.

3 – Vivian Maier (Alla ricerca di Vivian Maier di John Maloof Charlie Siskel)

Vivian Maier fu, in vita, una sorta di Mary Poppins, di Tata Matilda con qualche problema di personalità (si fingeva francese), ma, a posteriori, si è scoperta, forse, la più grande fotografa del XX secolo. Scoperta dovuta a John Maloof che, nel tentativo di ricostruire la storia del suo quartiere di Chicago, acquista scatole e scatole di negativi, portando alla luce un vero e proprio tesoro. Il film ricostruisce, nella forma del film di genere poliziesco, attraverso una detection (escamotage sempre più utilizzato dal documentario, vedi Searching for Sugar Man), la vita di questa incredibile fotografa, la cui unica ossessione forse è riconducibile ad una domanda incisa in una registrazione che l’autore ritrova e nella quale la Maier chiede ad uno dei bambini che accudiva “E ora dimmi, come si fa a vivere per sempre?“. La risposta, per quanto riguarda lei, è qui.

4 – Celestino Esposito (La macchina ammazzacattivi di Roberto Rossellini)

La fotografia immortala, rende immortali. Quella magica che finisce tra le mani di Celestino Esposito rende mortali. Anzi può uccidere e Celestino si trasforma in Dio. Ma scoprirà, a sue spese, che una macchina fotografica non necessariamente vede la verità delle persone e non permette di giudicarle come buone o cattive. L’occhio resta dell’uomo e l’uomo può sbagliare o essere tratto in inganno.

5 – Robert Kincaid (I ponti di Madison County di Clint Eastwood)

Robert Kincaid deve fotografare i ponti coperti per il National Geographic, ma scoprirà e farà scoprire a Francesca la vertigine dell’amore. E se Callaghan, alla fine di Dirty Harry, gettava disilluso il distintivo, Robert, macchina fotografica al posto della 44 magnum, si illude ancora, ma altrettanto invano, sotto la pioggia, che Francesca possa decidere di partire con lui.

https://www.youtube.com/watch?v=_bXG1KBHqj0

6 – Paparazzo (La dolce vita di Federico Fellini)

È più facile dire che ne è stato dopo, del nome Paparazzo (interpretato da Walter Santesso), di quanto lo sia ricostruirne l’origine (da Coriolano Paparazzo, albergatore calabrese celebrato dallo scrittore George Gessing in Sulle rive dello Jonio o da un gioco di parole su “pappataci” a sentir Giulietta Masina o ancora da “paparazze”, termine abruzzese che indica l’apertura delle valve delle vongole, secondo il racconto di Flaiano). Paparazzo non è chi ha come obiettivo ultimo il racconto della verità, anzi. Cerca la verità che piace ai rotocalchi, quella, speso artata, dei VIP, può addirittura mistificarla o partecipare ad una mistificazione, è la propaggine meccanica del nostro occhio morboso ed arriva dove questo non può arrivare. Paparazzo è ormai un dispregiativo (la morte di Lady Diana inseguita da fotografi ed il caso Fabrizio Corona hanno contribuito) ed infatti in una pellicola con Cole Hauser, intitolata proprio Paparazzi anche in originale, praticamente sono i villain del film.

7 – Pecker (Pecker di John Waters)

Sembra, in superficie, un Waters più conciliante (come tutto l’ultimo Waters, del resto, che adotta forme più assimilabili ai gusti del grande pubblico), ma in profondità c’è la solita analisi spietata di una società americana pronta a salutare (gli snob newyorchesi) come arte, foto di cui non individuano il senso (e sfugge allo stesso protagonista, come lui stesso si dice in camera oscura), ma che, a loro volta, possono essere soggetti esotici, strani e da dileggiare (in un perfetto capovolgimento di ruoli) in una mostra dislocata a Baltimora (città natale di Waters in cui si ambienta la totalità dei suoi film). Sebbene (o forse proprio perché) inconsapevole, perché ossessionato compulsivamente dall’atto del fotografare e non dall’oggetto fotografato, Pecker riesce a non inquinare la fotografia restituendole quel ruolo di portatrice di verità, come esplicitato nella scena del raid al supermercato in cui le persone sono non quello che mostrano di essere, ma quello che mostrano gli oggetti da loro acquistati: la merce come reificazione dell’individuo, quindi: non siamo quel che siamo, ma siamo quel che compriamo.

8 – Diane Arbus (Fur di Steven Shainberg)

La fotogenia può essere la qualità di un oggetto o di una persona che “viene bene” in foto. Nell’ottica di un Delluc, però, è la capacità della fotografia di portare alla luce il lato bello delle persone o delle cose ritratte. Diane Arbus, dapprima fotografa di moda insieme col marito Allan e poi, dopo la separazione, fotografa in proprio e soprattutto di freak (la folgorazione pare avvenne proprio dopo che il produttore Emile De Antonio le ebbe permesso di scoprire il capolavoro di Tod Browning) le conobbe entrambe. Fotografare il bello è quasi tautologico (rendere bello il bello), ma vedere il bello nelle persone che gli altri scansano, evitano o tutt’al più ammirano morbosamente nelle fiere, rappresenta un’epifanìa per il fotografo e per chi le fotografie le guarda. Shaiberg, già regista di Secretary, non realizza un biopic nel vero senso della parola, ma, come recita il sottotitolo, un immaginario ritratto di Diane Arbus. Un po’ quello che fa la fotografia, in fondo: un ritratto ideale.

9 – Pasquale (Miseria e nobiltà di Mario Mattoli)

La fotografia ferma la realtà, ma non è detto che consenta di afferrarla. Anzi, spesso al fotografo viene chiesto di mistificarla. Pasquale fa il fotografo ambulante mentre il compare Felice Sciosciammocca fa lo scrivano. Entrambi fanno sì che le persone, attraverso la loro immagine o la prosa scritta, sembrino migliori di quanto siano in realtà. Capacità che metteranno a frutto autorappresentandosi in modo mistificatorio, come nobili. Ma questo scollamento dalla realtà sembra contagiare anche Pasquale il quale pensa di poter fare una spesa enorme dando in pegno un semplice e malandato soprabito che non è certo il paltò di Napoleone.

10 – Aleksander (Prima della pioggia di Milcho Manchewski)

La documentazione visiva e audiovisiva è sempre stata considerata (e che lo sia ancora lo dimostra ogni filmato dell’ISIS che viene rilasciato in rete) un’arma fondamentale per creare consenso o dissenso, a seconda di chi commissioni il documento e dei suoi obiettivi. Logico quindi che il fotoreporter embedded (come il cineoperatore) sia sempre stato considerato un eroe, uno in grado di svelare la realtà dietro l’artificio, di solito approntato con gli stessi mezzi, dai regimi. Nel fotoreporter di guerra vive, pertanto, una consapevolezza in più: che la verità non sia nell’immagine fotografica di per sé, ma, comunque e sempre, nell’occhio di chi quell’immagine la ferma. E l’etica, la morale non sono della fotografia, ma, sempre e comunque, dell’uomo. Ecco perché, spesso,  registi come Roger Spottiswood (Sotto tiro), Oliver Stone (Salvador), Roland Joffe (Urla del silenzio), Peter Weir (Un anno vissuto pericolosamente in cui il personaggio di Billy Kwan è interpretato da Linda Hunt che, per questo ruolo maschile, vinse l’Oscar come miglior attrice non protagonista) hanno scelto di raccontare la guerra utilizzando, come punto di vista, quello di giornalisti e fotoreporter. Fu un’immagine scattata l’8 giugno del 1972 a Trang Bang, dopo un bombardamento al napalm, a rivelare agli Americani cosa stessero realmente facendo i soldati in Vietnam, contribuendo a far nascere uno spirito critico diverso. La foto, di Nick Ut, ritraeva una bambina, Kim Phung, mentre fuggiva nuda a seguito del bombardamento. Forse la fotografia ha perso oggi questa valenza maieutica (la foto del bambino siriano, Aylan, ha commosso, ma, a quanto pare, non ha spostato più di tanto l’asse dell’opinione pubblica), ma ci piace ricordare, forse, l’ultimo film in cui la magia del cinema e della narrazione acronologica (curiosamente ricorrente nello stesso periodo in un altro film tripartito come Pulp Fiction) concedono al fotoreporter di guerra di fare la differenza. Aleksander ha quasi distopicamente, una seconda possibilità. Nel primo episodio l’albanese Zamira muore e certi scatti che vediamo nel secondo episodio ci dimostrano che quella morte, cronologicamente, è già avvenuta, ma siccome “il cerchio non è perfetto, il tempo non è finito”, ad Aleksander, ossessionato dal senso di colpa di chi si limita a ritrarre gli orrori della guerra, viene concessa una seconda possibilità nel terzo episodio che, capiremo alla fine, innesca (di nuovo?) gli avvenimenti del primo episodio.

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