
Appuntamento con la classica playlist di fine anno. Ci troverete i 10 migliori film distribuiti nell’anno solare 2024, anche se prodotti l’anno precedente. Ovviamente i 10 migliori tra i film che sono riuscito a vedere. Ci sono un bel po’ di film fraintesi, quindi buona lettura e buon 2025. Al cinema ovviamente.

1 – Joker: Folie à deux di Todd Phillips
“Everything that happens in life/Can happen in a show/You can make ’em laugh/You can make ’em cry“
In questa strofa di That’s Entertainment! da Spettacolo di varietà (che viene proiettato all’Arkham Asylum) c’è la chiave di lettura di Joker: Folie à deux. Che solo superficialmente può richiamare Dancer in the Dark e, volendo, La La Land, dove il musical rappresenta il luogo in cui fuggire da una realtà insoddisfacente. Todd Phillips si veste da Debord e ci dice che “tutto ciò che succede nella vita può succedere in uno show”, anzi è la vita stessa ormai a essere uno show. Noi tutti viviamo perennemente a favore di macchina, odiando chi ci impalla e preferendo la luce dell’esposizione all’oscurità dell’anonimato. Questa sovrapposizione è resa in maniera sottile (le luci del carcere che diventano occhio di bue per un’esibizione), ma deflagrante rispetto alla logica del sequel. Joker: Folie à deux ha deluso le aspettative, come Arthur Fleck delude Lee. Non c’è nessun Joker. Joker è show, entertainment, Arthur Fleck è la vita e, in quanto tale, non ha appeal. Noi tutti vogliamo lo show, vogliamo il clown. Phillips sembra rispondere a tutti quelli che sostenevano che Joker non era Joker. È così: Arthur Fleck è il protagonista, Joker non esiste. O forse sì. Ma non è Arthur Fleck.

2 – Do Not Expect Too Much From the End of the World di Radu Jude
Possiamo sforzarci (e anche un po’ masturbarci criticamente) definendo contemporanei film che forse lo sono forse no, ma poi arriva Radu Jude (e Bertrand Bonello con un’opera speculare a questa) che, senza troppi virtuosismi cerebrali, ci mostra cosa sia effettivamente il cinema oggi. E non ha pudore nel citare alla fine (titoli di coda fantastici) le fonti accostando Tik Tok e Facebook a Baudelaire e Don De Lillo. Pur avendo ben chiaro (come aveva già dimostrato in Sesso sfortunato o follie porno), alla pari di Sorrentino, di come attualmente la partita si giochi sulla superficie dell’immagine, Jude non rinuncia all’aspetto più apertamente politico del dirigere film ovvero denunciare. Che si tratti della condizione femminile (confrontando l’Angela protagonista del suo lavoro con quella di un film del 1981, Angela Goes On) o di quella dei lavoratori, delle macerie lasciate dalla dittatura o della mistificazione capitalistica (in questo del tutto simile alla manipolazione dell’informazione durante il regime di Ceaușescu), il regista non tace su nulla, ma lo fa con la leggerezza di un meltin’ pot linguistico estremamente consapevole di cosa sia oggi l’immagine senza dimenticarne l’origine (il piano sequenza finale come il primo film dei Lumière, che già “fingeva” la realtà della fabbrica). Una visione imprescindibile.

3 – La zona d’interesse di Jonathan Glazer
Il male non è banale, con buona pace di Hanna Arendt. Lo affermiamo, certo, ci piace pensare che lo sia, è il nostro alibi. Se non ce ne rendiamo conto, se non reagiamo è perché “chi lo avrebbe mai detto?”. Non pensiate di poter guardare con la distanza di chi non c’entra. La famiglia Höss siamo noi che viviamo con l’orrore come rumore di fondo e continuiamo a fare finta di niente. La casa degli Höss è la nostra casa. Che osserviamo come se la tenessimo d’occhio con quei bei sistemi di videosorveglianza che cercano di venderci per la nostra sicurezza, comprese le videocamere con visione notturna. Ci guardiamo, ma mai oltre il nostro giardino/orticello. L’orrore è lì accanto. Fuori campo? Chissà? Perché anche quando con un raccordo di sguardo Glazer ci mostra il controcampo di Rudolf, la museificazione dell’orrore si rivela essa stessa orrore, visto che contemplare il passato è esercizio sterile per nulla in grado di evitare gli stessi e(o)rrori. Nota a margine: in un film in cui il Primo Piano non è un’opzione, Sandra Hüller è bravissima nel restituirci la psicologia di un personaggio attraverso il corpo, la postura, l’incedere.

4 – Perfect Days di Wim Wenders
Anche se sembra ormai uscito un secolo fa, in realtà è stato distribuito in Italia il 4 gennaio del 2024. Ricordate l’utopia zavattiniana? Fare un film su un uomo che la mattina si sveglia, si lava, fa colazione, va al lavoro, mangia a pranzo, torna a casa, cena e va a dormire? A quanto pare ci è riuscito Wim Wenders perché, a dispetto del cognome Hirayama che evoca fantasmi ozuiani, Perfect Days è la cosa più vicina a Umberto D. che si sia mai vista. Un film fatto di niente eppure fatto di tutto, dei pieni e dei vuoti (il famoso “ma“, anche qui un topos di Ozu) come quelli tra le foglie attraverso cui il protagonista cerca di fissare, con una Olympus analogica, il momento del komorebi. Il momento, l’hic et nunc di Zavattini. Perché “adesso è adesso”. E allora si può anche essere felici e tristi, sorridere e piangere mentre Nina Simone canta:
“It’s a new dawn/It’s a new day/It’s a new life/For me/And I’m feeling good/I’m feeling good“

5 – Giurato n. 2 di Clint Eastwood
Dopo l’ottuagenario Wim Wenders (e forse in questa lista avrebbe dovuto/potuto esserci anche Megalopolis di Francis Ford Coppola) il 94enne Clint Eastwood dà ancora lezioni di cinema a tutti. La cosa più interessante del suo ultimo immenso film è il ribaltamento di segno del concetto di giustizia cieca. È la giustizia a essere cieca o chi si rifiuta di vedere? O ancora chi testimonia di aver visto, ma solo per allontanare lo spettro della solitudine. La cecità non necessariamente garantisce l’imparzialità. È cieco anche chi “pre-giudica”. “Ora sei una politica” dice la difesa al procuratore e in questa affermazione si avverte tutto il disprezzo di Eastwood per qualcosa che allontana dalla verità. Tuttavia il procuratore, spogliatosi della sovrastruttura politica, alla fine, forse, farà giustizia. Perché sceglierà la verità senza la quale la giustizia è solo un miraggio.

6 – Blink Twice di Zoë Kravitz
Probabilmente, con Anora di Sean Baker, il film più frainteso dell’annata (indistintamente, mentre Joker: Folie à deux è stato rifiutato solo dal pubblico). C’è il rischio che il debutto alla regia di Zoë Kravitz passi inosservato mentre, con tutti i nei di un esordio, è una vera bomba. I nei sono un set-up forse eccessivamente lungo e la sensazione di déja-vu, ma parliamoci chiaro: Ira Levin, con The Stepford Wives, aveva già detto tutto più di 50 anni fa e La fabbrica delle mogli, versione cinematografica del romanzo, resta un cult. Ecco perché roba tipo Don’t Worry Darling è irricevibile. Ma Blink Twice no, perché da un certo punto in poi il film prende una piega interessantissima. Senza fare spoiler, il lavoro della Kravitz parla di Cancel Culture non come soluzione (“L’oblio è un dono” dice Geena Davis), specie se adottata a fini di entertainment (“Ti stai divertendo?” è la domanda ricorrente posta alle ospiti della vacanza). Che la soluzione e il rimedio siano appannaggio di una nativa americana, poi, è una delle ricorrenti finezze di scrittura (l’altra, permettetemi, quasi un indizio subliminale, è la trovata delle galline/pollastrelle perennemente in fuga) di un’opera prima davvero potente. Una bomba. Una protagonista nera cui viene chiesto, all’inizio, di essere invisibile e che, durante il soggiorno sull’isola dichiara di essere stufa di esserlo. Ralph Ellison? Chissà?

7 – Parthenope di Paolo Sorrentino
È stato in ballottaggio con Il tempo che ci vuole di Francesca Comencini, ma poi ho scelto di inserire l’ultima regia di Sorrentino perché per me è quella della maturità. Forse Paolo Sorrentino ha chiuso i conti con Napoli. Parthenope, in fondo, può considerarsi il capitolo finale di una Trilogia cominciata con L’uomo in più e che ha dovuto aspettare gli anni della fuga (prima nella Svizzera – come Sofia Loren? – di Le conseguenze dell’amore e poi in giro per l’Italia e per il mondo), ma anche della maturità che gli ha permesso di mettersi a nudo (John Cheever?). Prima biograficamente con È stata la mano di Dio e ora antropologicamente in quanto Napoletano. È importante anche che il dittico finale, che chiude questa ideale trilogia, sia fotografato da Daria D’Antonio quasi che, come scrive Giulio Sangiorgio su FilmTv, si sia “placato il muscolarismo estetico dell’autore” supportato da Luca Bigazzi, “facendogli trovare una misura differente, un distacco dolce, una maggiore libertà, priva d’ansia dimostrativa“. La scelta di Stefania Sandrelli sembra quasi voler significare che, Parthenope, Sorrentino ora sente di conoscerla bene (ed è un vero e proprio mazzo di fiori, a lei donato, quel “Che cosa c’è” cantato da Gino Paoli sui titoli di coda). Questa città che sfugge a ogni classificazione perché “a Napoli c’è sempre posto per tutto“. Questa città abitata da esseri fatti di acqua e sale, da uomini di fede molto profani, da ricchi che ostentano la nobiltà e da poveri che ostentano la miseria, una città che copula per compromesso. Sorrentino attraversa la topografia di una città e la geografia di un corpo femminile come fossero memoria di rappresentazione: La pelle, La sfida (Roberto Criscuolo come Vito Polara), il sempre inseguito La Capria (di cui, da anni, Sorrentino dice di voler adattare Ferito a morte). Parthenope è, a tutti gli effetti, il film definitivo su Napoli, che chiude il cerchio con L’uomo in più (anche qui ce n’è uno, è Raimondo, e anche qui si cancella nell’acqua) e forse con sé stesso, uomo in più che ha dovuto allontanarsi per poter finalmente “vedere” Napoli. Senza morirne.

8 – Le occasioni dell’amore di Stéphane Brizé
Anche qui Stéphane Brizé in fondo parla della legge del mercato, quella che fa sentire disadattato il protagonista Mathieu (come il Thierry di Lindon). In fuga dal teatro per ansia da prestazione, il “famoso attore” è fuori (dalla) stagione (teatrale), ma anche fuori (dall’alta) stagione della località in cui si rifugia. Nella prima parte Guillaume Canet accentua la sua dislocazione trasformandosi in una sorta di Monsieur Hulot alle prese con la modernità (i calzari per il massaggio, la macchinetta del caffè) per poi ritrovare un amore del passato e ritrovarsi. Il punto è che entrambi hanno lasciato che le loro vite scorressero in modo automatico come il pianoforte che suona senza che sia necessario qualcuno che pigi i tasti. Capirlo, pur senza poter recuperare, sarà sicuramente di aiuto. Sembra quasi che Brizé abbia trasposto in immagini le parole di una delle più belle canzoni di Franco Battiato e che l’abbia fatto con le stesse delicatezza e gentilezza di tocco dell’autore siciliano. Gran film.
“La stagione dell’amore viene e va/I desideri non invecchiano quasi mai con l’età/Se penso a come ho speso male il mio tempo/Che non tornerà, non ritornerà più
La stagione dell’amore viene e va/All’improvviso senza accorgerti, la vivrai, ti sorprenderà/Ne abbiamo avute di occasioni/Perdendole, non rimpiangerle, non rimpiangerle mai“

9 – The Bikeriders di Jeff Nichols
Se avessi visto The Bikeriders senza conoscere il nome del regista, lo avrei attribuito a James Gray. Johnny, Benny e Kathy sembrano animare una relazione (anche sessuale) tipica del regista di Two Lovers. Per non parlare della paternità putativa e del parricidio (partendo da Little Odessa per giungere al floppone Ad Astra). Invece, dietro la mdp c’è Jeff Nichols che, come già in Loving, si lascia ispirare da fotografie (lì quelle di Gray Villet per Life, qui quelle del libro omonimo di Danny Lyon) per un’opera che, più che nostalgica, riflette sulla nostalgia. In fondo, Johnny che ha l’idea di formare una banda di motociclisti guardando in TV Il selvaggio di Laszlo Benedek è già un individuo mosso dalla nostalgia, dal ricordo di una ribellione che era collettiva e faceva collettivo. A questa ribellione ne succederà un’altra fondata sull’avidità (contrabbando, spaccio, prostituzione), sull’individualismo, sul tradimento (il “nuovo” è disposto ad abbandonare i suoi amici per entrare nei Vandals). Johnny è un po’ un Carlito Brigante, il cui sacrificio stavolta servirà alla realizzazione del sogno borghese, ma non il proprio. Bensì quello di Kathy e dell’amato Benny.

10 – Dostoevskij di Damiano e Fabio D’Innocenzo
Con Dostoevskij i fratelli D’Innocenzo continuano a scavare nella disperazione di una società postumana che ha tanto in comune con quella ritratta, a partire da Cinico TV, da Ciprì e Maresco. In questi luoghi fatiscenti, crepati, spogli, marci o, nel migliore dei casi, anonimi, si muove un gruppo di disperati per i quali la vita è solo accanimento terapeutico. I registi non fanno nulla per rendere lo scenario apocalittico affascinante, anzi la fotografia di Matteo Cocco cerca il buio più che la luce, mentre scenografie, arredi e costumi non hanno nulla di glamour. I D’Innocenzo prendono i tropi dei thriller sugli assassini seriali (il poliziotto in crisi e in rotta con la figlia, l’ambizioso nuovo arrivato, l’omicida intelligente, le lettere) precipitandoli in una forma filmica respingente, apparentemente poco curata, affinché lo stile si conformi ai paesaggi, interiori o meno. Sono quasi dei Dardenne che girano Se7en o Zodiac, non fanno sconti e non si sforzano di piacere a tutti costi, ma di sicuro rappresentano un unicum in un paese, l’Italia, che è sempre più la “terra dell’abbastanza”…carino.