Blade Runner 2049 – Il cinema come replicante

Uno dei temi che ossessiona Dennis Villeneuve è sicuramente la creazione. Che va intesa sia in senso anatomico (quante madri e quanti padri ci sono nei suoi film: dalla Nawal di La donna che canta alla Louise Banks di Arrival passando per i vendicativi Keller di PrisonersAlejandro di Sicario) che artistico (i riferimenti all’Es in MaelströmEnemy per non parlare del linguaggio degli alieni in Arrival). Questo stesso tema lo ritroviamo nell’attesissimo sequel di Blade RunnerBlade Runner 2049, declinato sia nei confini del diegetico che dell’extradiegetico o paratestuale.

Il concepimento di un figlio è risaputamente considerato atto di creazione, ma come ci si pone rispetto a chi crea vita artificialmente e non naturalmente? La replica ha dignità? C’è differenza tra nato e creato/replicato? Secondo l’agente K, interpretato da Ryan Gosling, la nascita conferisce l’anima. È proprio così? E per quanto riguarda un’opera artistica? Un film originale ha più anima di una replica, di un remake, di un sequel? Il cinema, in fondo, di per sé è un generatore di simulacri (nel senso di tracce, ma anche di immagini fisiche), di ombre, il cinema è un “replicante”, ma ogni volta che un film viene proiettato in una sala o in un lettore di supporti audiovisivi si dice che “si riproduce” e “riprodursi” in termini biologici significa creare, generare figli. Ecco, in questa sovrapposizione, anche semantica, tra creazione e replica/riproduzione va cercata la risposta alle suddette domande. Ed è lì che Villeneuve la trova. Anche perché Blade Runner 2049 problematizza ulteriormente la dicotomia primigenia di Philip K. (come il “blade runner” protagonista) Dick aggiungendovi una dialettica tra supporto fisico e ombra/ologramma che un po’ allude alla diffusione dell’audiovisivo attuale, in bilico tra resistenza dei supporti e nuova frontiera, instabile, dei flussi di dati. La convivenza tra loro è forse la ricetta, come dimostra la sequenza, romantica e intensa, tra KMariette Joi

Blade Runner 2049, quindi, ha un’anima perché in esso convivono creazione originale e replica (MariettePrisDeckard), ricava vita dal fatto che il significante totem è presente in entrambi i significati: di entità sovrannaturale e raffigurazione materica della stessa (la sequenza con le star ElvisMarilynFrank Sinatra/The Voice). Villeneuve non è arrogante come Neander (stesso nome della valle nei pressi di Düsseldorf dove furono ritrovati i resti fossili dei primi homines evoluti e con habitus sociali avanzati), non vuole sostituirsi a Dio, si insinua nell’originale, lo affianca, gli si sovrappone, ha rispetto e contemporaneamente l’adeguata visione che gli permette di creare il mondo del 2049 perfettamente coerente a quello del prototipo di Ridley Scott. Anche la sceneggiatura realizza questa convivenza: accanto a Hampton Fancher, autore pure del copione originale, troviamo Michael Green, uno che di repliche, sovrapposizioni, se ne intende (nell’ultimo anno, oltre a Blade Runner 2049 ha sceneggiato Alien:CovenantAssassinio sull’Orient-Express). Lo stesso Dio, in fondo, ha sì creato l’uomo, ma a sua immagine e somiglianza. La prima creazione, quindi, fu già una “replica” e l’uomo, nell’atto della creazione, non fa altro che ripetere/replicare l’atto creativo originario.

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