Un filo nascosto lega l’ultimo film di Paul Thomas Anderson non ai precedenti tre (Il petroliere, The Master e Vizio di forma, sorta di trilogia sul Grande Romanzo Americano raccontato dal Cinema), ma a Ubriaco d’Amore.
C’è un dialogo, in quel film (un’opera/cesura, liminare nel percorso autoriale di Anderson) che pare anticipare uno dei temi dell’ultima pellicola (metonimia calzante perché Anderson ha girato in 35 mm) ed è questo:
“Hai una faccia così adorabile, e hai delle guance che mi va di morderle. Ti voglio mordere le guance e mangiarmele da quanto sono carine”
“Io invece la tua faccia ho una gran voglia di spaccartela. Ho una gran voglia di spappolartela e maciullartela da quanto è bella”
“E io vorrei rosicchiare la tua faccia e poi cavarti gli occhi, li voglio divorare e masticare e succhiare”
L’amore come nutrimento, inteso anche in senso cannibalico. Reynolds Woodcock è afflitto dalla noia del sazio, le sue fugaci e superficiali relazioni spesso si chiudono a colazione. Quando proverà il digiuno, l’inedia affettiva, l’amore lo travolgerà. Ed il film si chiude con una battuta, “E mi sta venendo fame”, che presenta la stessa valenza materica, terranea del “Fuck” con cui si chiudeva Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick.
Stanley Kubrick che aleggia nell’opus 8 di Anderson (o 8 e ½ ,se consideriamo il documentario non firmato Junun) e non solo per il rigore stilistico della messa in scena. Chiusa la trilogia sul Grande Film Americano, per dirla con Roy Menarini, Anderson pare volgere la sua attenzione verso un altro capitolo della storia del cinema: quella del rapporto (incestuoso? Come quello tra Reynolds e la madre? O tra lui e la sorella?) tra Vecchio e Nuovo Mondo, tra Inghilterra e America. Come Kubrick il transfuga o Joseph Losey (autoesiliatosi per sfuggire alla lista di proscrizione maccartista), stavolta Paul Thomas Anderson fa il cineasta americano in trasferta british, lo yankee che si cala nelle atmosfere della Terra d’Albione e le governa alla perfezione. Ma ha ben presente anche la relazione contraria: Alfred Hitchcock, per esempio, il cui primo film americano è Rebecca, la prima moglie, ampiamente citato nella relazione tra i personaggi e nell’accenno thriller della seconda parte (che rimanda anche a Il sospetto, secondo film americano del maestro del brivido).
Phantom Thread non amplia la trilogia precedente trasformandola in tetralogia. Phantom Thread rappresenta un nuovo inizio. Quello in cui Anderson pensa al cinema europeo, al David Lean di Breve incontro e di Tempo d’estate, a Visconti, al Rossellini di Viaggio in Italia, ma anche forse al Jack Clayton di The Innocents, vicenda di passione amorosa e fantasmi tratta da Giro di vite di Henry James.
Quello in cui Anderson dà forma ad una nuova dialettica, tra le opere successive a Ubriaco d’amore, (“Trovando nel corpo la sola forma di resistenza all’invasione del privato e dell’intimità avviata dalla modernità, Anderson accetta di esaurire l’immaginario di una nazione e il suo spazio […] piuttosto che riprendere l’idea di un cinema formale e massimalista che ormai non gli appartiene più” dice Roberto Manassero, a proposito di The Master, nel suo Paul Thomas Anderson – Frammenti di un discorso americano, edito da Bietti per la collana Heterotopia) ed un nuovo sentiero che si avvia a percorrere. Si passa da Freddie Quell che non va oltre la superficie delle cose (“Sembra vetro”, “La stessa parete del cazzo. Niente. Non sento niente”) e lasciando senza risposta la domanda della procedura di Dodd (sia “Riesci a ricordare?” sia “Riesci a immaginare?”) a Doc Sportello che, invece, perennemente strafatto, nell’immaginazione ci vive, fino a Reynolds Woodcock che, scientemente, va oltre: all’interno della “trama” ci sono contenuti (etichette), messaggi nascosti. Una dialettica, tra fisicità e trascendenza, che si estrinseca nei nomi (come del resto avveniva in Il petroliere dove Plainview si scontrava/attraeva con Sunday): l’oscena matericità di Woodcock (letteralmente “cazzo di legno”, quasi una trovata da cinepanettone con Christian De Sica) si oppone ad Alma, il personaggio che porta “anima” in un ordito freddo (che si parli del film o della vita del protagonista), glaciale come la sorella Cyril. Sicché, il progetto di despettacolarizzazione della Storia (ancora PT Anderson e il vizio di forma del Grande Romanzo Americano) si scontra con l’immissione del sentimento amoroso così come la vita poco avvincente di Barry Egan, anch’egli accudito/controllato da sette sorelle, si anima solo dopo l’incontro con Lena Leonard.
Alma anima e si anima, ribellandosi al destino di manichino che Woodcock ha in serbo per lei, come per tutte le donne della sua vita, compresa la madre, amata/ricordata come modella dei propri abiti da sposa, immortalata in una fotografia. È da fotografia, mummia baziniana, che la madre appare al protagonista nella stanza in cui giace in preda al delirio; immobile fantasma tassidermico che non a caso sparisce quando Alma entra e, quale mummia del movimento, rappresenta il passaggio dalla fotografia al cinema, dalla superficie (Fred Quell fa anche il fotografo) alla profondità. Alma surroga la madre, si fa Alma Mater, come Cerere, dea della terra e della fertilità, ma, come la terra, nutre o avvelena. E l’amore è nient’altro che sindrome di Münchhausen per procura. In quanto cinema, Alma non intende fermarsi, va avanti (anche in flashforward, ma lo saranno davvero? o dipende dal fatto che Alma, diversamente da Quell, riesce ad immaginare?), vuole progredire, amare o odiare, amare fino a odiare. Perché, come sostiene un altro memorabile personaggio femminile, “Tu credi davvero che esista il tempo?” e “Io so odiare perché so amare, senza limiti”. Il personaggio è Anna, il film è diretto da Dino Risi, il titolo è Fantasma d’amore.
Paul Thomas Anderson pensa al cinema europeo con un rigore stilistico che evoca Kubrick
in breve
Phantom Thread non amplia la trilogia precedente trasformandola in tetralogia. Phantom Thread rappresenta un nuovo inizio. Quello in cui Anderson pensa al cinema europeo, al David Lean di Breve incontro e di Tempo d’estate, a Visconti, al Rossellini di Viaggio in Italia, ma anche forse al Jack Clayton di The Innocents, vicenda di passione amorosa e fantasmi tratta da Giro di vite di Henry James.
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