Qualche mese fa (il 21 novembre 2014), in occasione dell’uscita di Interstellar di Christopher Nolan, Roy Menarini su Scenari si chiedeva: si può parlare di Grande Film Americano così come si parla di Grande Romanzo Americano? Non intendiamo qui rispondere alla domanda, ma aggiungere un ulteriore elemento alla discussione. Magari il Grande Romanzo Americano è semplicemente diventato un ipertesto o un testo espanso, come se ne trovano tanti nei vari media, e come tale ha trasmigrato dalle pagine di un libro al Grande (questo per definizione) Schermo. Se questo è vero, di sicuro uno dei suoi principali autori è, al momento, Paul Thomas Anderson. Che, da Il petroliere in poi, ha iniziato un percorso, nuovo, di despettacolarizzazione della Storia Americana e del Cinema Americano. O della Storia Americana così come raccontata dal Cinema Americano.
Da Il petroliere in poi, dicevamo. Cos’altro è il film con Daniel Day-Lewis se non una rivisitazione di Greed, Il figlio di Giuda e Il Gigante asciugata dello spettacolo? C’è un incontro/scontro tra Religione e Capitale, le due anime che intossicano l’America (che, infatti, in Vizio di forma sarà indicata come “tossica”). Quell’America che, nell’incipit di Il petroliere, partorisce (fisicamente, dalla terra) Daniel Plainview, ovvero la deriva sociopatica del Capitale cui si opporrà (ma è davvero così?) Eli Sunday.
Quest’ultimo torna, risorge (o continua ad essere) in The Master dove cambia nome e diventa Lancaster Dodd (Lancaster come il Burt di Il figlio di Giuda, di nuovo), un uomo che fa del suo sapere (è un fisico) l’arma con cui incastrare i deboli (gli ignoranti, i creduloni). Fred Quell (Joaquin Phoenix), invece è un sociopatico come Daniel, la Guerra lo ha reso tale. La Guerra e quel Sogno Americano che viene promesso a tutti, ma donato a pochi. Fred è un Rebel Without a Cause (il titolo originale di Gioventù bruciata) e Lancaster provvede a trovargliela (la Causa è il nome del culto che fonda). Ancora una volta l’America sembra fare tutto e il contrario di tutto: il capitalismo e la sua demonizzazione, la ribellione ed il suo ingabbiamento (in Vizio di forma la tossicodipendenza e la disintossicazione). In realtà si tratta di due facce della stessa medaglia ovvero il business. Tutto è affare in America. Fred Quell, la cui sessualità è rimasta quella di un adolescente (nell’incipit si eccita e si masturba grazie ad una scultura di sabbia raffigurante una donna prosperosa) torna dalla fidanzata, Doris che, però, ha sposato un Day ed è diventata, di conseguenza, la “fidanzata d’America” cioè di un intero (Grande) Paese e non più solo sua.
Quindi ritrova Lancaster, ma in Inghilterra, giunto nella terra d’Albione in una sorta di colonizzazione al contrario (dall’Inghilterra in America e ritorno). Alla fine essendo un ribelle senza Causa, il suo si profilerà come un girare a vuoto (cosa che lo spettatore meno attento, ed in cerca di Cinema Americano Spettacolare, rimprovera al film di Anderson). Doris Day lascia le scene nel 1968, non è più tempo per lei. Fred resta solo e nei suoi nuovi panni, quelli di Doc Sportello, la ritrova, si chiama Shasta e non è più moglie del Capitale, ne è l’amante. Mettendosi al lavoro su Inherent Vice, Paul Thomas Anderson estremizza il lavoro di “sfrondatura” dello spettacolo cinematografico hollywoodiano. Stando alle note di regia, per il primo adattamento, il regista di Magnolia non ha fatto altro che trascrivere, riga per riga, le pagine dell’omonimo romanzo di Thomas Pynchon per poi procedere a tagli. Ma, mentre per Il petroliere Anderson eliminava gli aspetti più politico/sociologici di un romanzo, Oil, scritto da un autore profondamente impegnato come Upton Sinclair, perché i due personaggi principali risultassero più emblematici e si facessero, con la loro storia, latori della Storia, qui, di fronte ad un romanzo sì di un vecchio autore come Pynchon, ma relativamente recente (è del 2009), l’operazione lavora su due piani: quello più propriamente narrativo e quello formale, provvedendo a restituire l’estetica postmoderna (troppo spesso, a volte anche nello stesso Pynchon, un postmoderno ante litteram, ridotta ad un semplice “buttiamola in caciara”) a quel dualismo cultura alta/cultura bassa che ne costituisce la caratteristica fondamentale. Alto e basso che si rispecchiano l’uno nell’altro sono gli ennesimi opposti che si attraggono, come Capitale e Religione, Ribellione e Tradizione. E Ribellione e Tradizione vengono incarnati, in quest’ultimo film, da “Doc” Sportello ed il suo doppelganger a chiasmo Christian “Bigfoot” Bjornsen. In quale altro senso, se non questo, si può interpretare la splendida scena finale in cui uno Sportello strafatto ed un Bigfoot, che rovescia erba dal vassoio nella sua bocca, dicono le stesse identiche cose (una trovata che è pura licenza creativa, essendo inesistente nel romanzo)?
Per il resto, Anderson contrappone ad un intreccio sovrabbondante e surreale (come lo sono tutti gli intrecci noir che, in fondo, Pynchon omaggia) uno stile/non stile, disadorno nel profilmico (quanti pareti bianche dietro i primi piani nei dialoghi: una scelta che, di norma, gli scenografi trovano aberrante) ed impercettibile nel filmico (lenti movimenti di macchina in avanti, di cui ci si rende conto solo alla fine, quando ci si trova di fronte a primi piani o mezze figure, essendo partiti da campi medi o totali) o lunghe inquadrature fisse (come quella, stupenda, che culmina nell’amplesso con Shasta). Ragion per cui, sì ci sono sia i fratelli Coen ed anche, per ammissione dello stesso regista, altri due fratelli, gli Zucker, ma rimodellati secondo coordinate nuove. L’America è tossica, si dice nel film, e quindi può essere raccontata solo da una voice over che è un Sortilège, un incantesimo che appare e scompare (la vediamo, per ben due volte, in auto con Doc dialogare con lui, ma quando arriva a destinazione, lei non c’è più) o che, forse, non esiste, è anch’essa frutto di un’immaginazione alimentata dalla droga. L’America disin/tossica perché riesce a fare di ogni cosa un business. E ci riesce stando perennemente nel mezzo, dove proverbialmente c’è la virtù. O il vizio. Intrinseco.