L’estate è la stagione dei bagni, del sole, delle vacanze e…dei recuperi. Ve ne suggeriamo dieci.
1 – Captive State di Rubert Wyatt
Mentre ci si è sperticati in lodi per il contenuto politico piuttosto esplicito di Noi, è passa sotto silenzio un film potentissimo come Captive State di Rupert Wyatt che si concede il lusso di citare Melville (L’armata degli eroi) diegeticamente, di costruire una sequenza centrale di attentato come il Frankenheimer dei tempi d’oro, di mantenere alta la tensione e la suspense e contemporaneamente farsi latore di un messaggio rivoluzionario per una produzione a stelle e strisce. Gli alieni invasori qui non distruggono, ma dicono di portare la democrazia e il benessere e si fanno chiamare Legislatori (vi dice qualcosa?) mentre i terroristi non sono cattivoni folli, ma combattenti per la libertà. Applause.
Captive State, a dispetto dello scarso successo di pubblico, probabilmente finirà nei libri di storia di domani per aver saputo raccontare meglio di ogni altro gli anni ’10 di questo secolo. Oppure sparirà, come le memorie degli smartphone che, analogamente a ogni cosa riguardante il passato, possono essere pericolose. Perché il potere non vuole che si ricordi. La memoria è rivoluzionaria.
2 – In guerra di Stephan Brizé
– Non combattete il nemico sbagliato
Il fatto è che non c’è un nemico sbagliato. Ci sono più nemici: la dirigenza, il neoliberismo, l’indifferenza delle istituzioni, il racconto dei media, la disunione tra lavoratori. E sono tutti veri nemici. Del lavoro. Della dignità. Della civiltà.
Dopo La legge del mercato Stephan Brizé si conferma probabilmente l’unico regista in grado di parlare di lavoro nel modo più autentico possibile. E Vincent Lindon è un mostro di bravura.
3 – Sorry to Bother You di Boots Riley
Sorry to Bother You è blaxploitation incazzata. È Putney Swope, The Watermelon Man e Sweet Sweetback’s Baadasssss Song frullati insieme, Melvin Van Peebles che incontra il miglior Spike Lee. L’opera prima di Boots Riley ri-prende la Trinità dello Spacciatore, del Pappa e della Pantera (come scrive Darius James nel suo imprescindibile That’s Blaxploitation!: Roots of the Baadasssss ‘Tude – Rated X by an All-Whyte Jury) e ne fa la protagonista (triplice) del suo film. Cassius Green, aspirante Pantera (come la sua donna Detroit), diventa Pimp capitalista e Pusher di Schiavitù. Per poi sfociare in Collodi (Worryfree come Il paese dei balocchi).
Mentre l’Academy si propagandava ipocritamente progressista, veicolando una rappresentazione del corpo nero normalizzata (e non parlo solo di Green Book), dopo l’Oscar a Get Out dell’anno passato, l’anarchico (per tema e forma) Sorry to Bother You, del tutto dimenticato dalla giuria, scava a fondo nelle ragioni del razzismo: neri, operai, proletari, schiavi, tutti accomunati (e qui sembra scorgere quasi l’intuizione pasoliniana) dal miraggio di una vita borghese “worryfree” che, in realtà, ci trasforma in cavalli in un recinto.
4 – Burning di Lee Chang-dong
Per Jongsu la vita è un mistero. Sfuggente. Come in tanti hanno definito Burning. Lee Chang-dong adatta un racconto breve di Haruki Murakami e ne vien fuori un fluviale, ipnotico e avvolgente essai sulla scrittura, sulla fantasia e sull’inganno che si nasconde dietro essa. Il protagonista scrive una petizione per favorire il padre processato e lo descrive come amichevole, ma il Sindaco, pur firmando, afferma che non lo è. Haemi racconta di un pozzo che forse c’è, forse non c’è. E il gatto Boil? Ben chi è? Il grande Gatsby o Patrick Bateman? Tutto questo mentre la Corea del Nord continua a diffondere messaggi di propaganda per inerzia (si racconta una storia?). Quando i personaggi che immagina uno scrittore finiscono su carta, forse muoiono. E allora Jongsu completa la sua storia. Mistero risolto?
5 – Zen sul ghiaccio sottile di Margherita Ferri
Sul ghiaccio sottile come sul filo del rasoio. Però il ghiaccio è lo stato solido dell’acqua. E Zen non riesce ad adeguarsi alla solidità, imposta, del dualismo maschio-femmina con le varianti dell’orientamento (omo)sessuale. La liquidità, il gender fluid, nascosto sotto il ghiaccio (in un sottosopra alla Stranger Things, come nel fumetto che disegna Vanessa) che cerca di venir fuori. Perché Zen, nato Maya, non è una lesbica. Semplicemente si sente uomo e quindi in un corpo sbagliato. Zen sul ghiaccio sottile è in fondo l’origin story di un eroe. Perché da grandi consapevolezze derivano grandi responsabilità.
Zen sul ghiaccio sottile, opera d’esordio di Margherita Ferri (proviene dal mondo delle web serie, ma non porta in dotazione nessun tic da youtuber, anzi il suo è un lavoro estremamente cinematografico che mescola cinema del reale, coming of age e rom com) è, lo dico senza giri di parole, un gioiello. Non è carino, è proprio un gran film. Che sa parlare con delicatezza di adolescenti, di identità sessuale, di bullismo. Ora il punto è che qualcuno, la Biennale College, ha creduto in questo soggetto che nel 2013 ha vinto una menzione al Solinas – Storie per il cinema. Il film c’è, c’è in Italia chi riesce a scrivere e dirigere un’opera di gran valore. C’è chi glielo produce. E poi? Il film va visto.
6 – Border di Ali Abbasi
In Lasciami entrare, trasposto in pellicola da Tomas Alfredson, ricordo che Corrado Morra sottolineava come John Ajvide Lindqvist facesse del sesso della vampira, impudicamente mostrato nel film, quasi la cicatrice di un’evirazione. Anche in Græns – Border che Ali Abbasi ha tratto da un altro racconto dello stesso autore, il genere (sessuale e/o animale) non è così nettamente definito. Il confine non è solo geografico, ma anche tra realtà e mito, tra umano e disumano. E in nessuno di questi casi si tratta di linea di demarcazione chiara e inequivocabile.
7 – Assassination Nation di Sam Levinson
Assassination Nation ovvero Perfetti sconosciuti, ma con le conseguenze che si sarebbe aspettato de la Iglesia (“Quando ho visto il film italiano ho pensato che era incredibile che fossero tutti così calmi e che io non avrei mai potuto girarlo così, il mio era venuto con un altro stile”).
Sam Levinson, regista di Assassination Nation, è il figlio di Barry, ma ha recitato anche con Uwe Boll e non si può non dire che l’incipit non sia influenzato dall’estetica tamarra 2.0. del regista di Postal. Ma Levinson dimostra di poter e saper fare di più, sia tecnicamente (un pianosequenza da paura che racconta un home invasion) sia ideologicamente. Assassination Nation narra l’orrore che stiamo vivendo, quello bioctonio, che origina dalle viscere, dalla pancia della gente. La pancia non pensa, la pancia trasforma il cibo in merda. Solo che ora quella merda viene riversata nel mondo social. Levinson ci mostra cosa potrà (non uso volutamente il condizionale) accadere se si perde il controllo. Porta le shit storm sulle strade e che questa vicenda si svolga a Salem serve anche a ricordarci che non è manco la prima volta, basterebbe serbarne memoria. Ma, come dice Lily Colson, ci siamo dati regole che non riusciamo a rispettare. La rivincita sarà rosa e all’insegna della Pinky Violence (genere seventies di appartenenza di Female Prisoner 701: Scorpion di Shunya Ito, film che le protagoniste guardano in TV e di cui riprendono il look indossando impermeabili rossi), ma nella compagine sono ricomprese anche una trans (la modella Hari Nef al suo primo film) e una nera. Come nero è il corteo su cui scorrono i titoli di coda con la banda che suona We Can’t Stop di Miley Cyrus. We Can’t Stop/We Won’t Stop.
8 – Eight Grade di Bo Burnham
Quanta verità, quanta bravura nel raccontare il mondo di una quattordicenne, quanta volontà di capire senza giudicare. Eight Grade, senza tanti giri di parole, è un gran film.
9 – Lontano da qui di Sara Colangelo
È probabile che solo Maggie Gyllenhaal possa oggi interpretare un personaggio complesso come quello della protagonista di Lontano da qui, Lisa Spinelli (forse Julianne Moore, ma la lista di attrici finisce qui). Una donna, una maestra d’asilo a tal punto ossessionata dall’assenza di poesia e bellezza nella vita da trasformarne la ricerca e la scoperta del genio, in un bambino, in patologia. Inizialmente Lisa è sgradevole, non ne capiamo le intenzioni (tra il plagio e la voglia di riscatto personale, tra Salieri e il maestro di canto impersonato da Alberto Sordi in Bravissimo), ma alla fine ha tutta la nostra comprensione, sebbene, in difesa dell’arte, si spinga fin dove nessuno di noi farebbe.
Lontano da qui è il remake dell’israeliano The Kindergarten Teacher ed è diretto dall’italiana Sara Colangelo, da anni attiva in America e che per questa regia ha vinto il Sundance 2018.
10 – Disobedience di Sebastián Lelio
Ronit è a casa del padre, il rabbino di una comunità ebraico ortodossa londinese morto nell’incipit (dopo un’omelia sul libero arbitrio degli uomini), insieme con Esti, la donna che ama (e il motivo per cui è fuggita, mentre Esti è rimasta adattandosi alle rigide regole della comunità che la vogliono sposata ad un uomo con cui fare sesso ogni venerdì, e la obbligano a indossare una parrucca, versione apparentemente innocua dell’hijab, ma altrettanto mortificante). Accende una radio, c’è Lovesong dei Cure:
“ogni volta che sono da solo con te
mi fai sentire come se fossi a casa di nuovo
ogni volta che sono da solo con te
mi fai sentire come se fossi integro di nuovo
ogni volta che sono da solo con te
mi fai sentire come se fossi giovane di nuovo
ogni volta che sono da solo con te
mi fai sentire come se fossi allegro di nuovo“.
Disobedience, primo film inglese del cileno Sebastián Lelio (quello di Gloria e Una donna fantastica), è un po’ come questa scena: sottolineato, spesso pleonastico, quasi temesse l’incomprensione del pubblico. Ne vien fuori una di quelle pellicole fin troppo corrette, da cineclub in cui coppie anziane vanno per poi sentirsi migliori una volta tornate nell’alveo borghese delle loro certezze progressiste di maniera. Anche la sceneggiatrice Rebecca Lenkiewicz appare frenata, rispetto al capolavoro del non detto Ida. Non c’è un’allusione, in Disobedience, non un’ellissi, è tutto esplicitato e scritto. Però, giungono in soccorso di un copione deludente, tre attori in stato di grazia: Rachel Weisz, Rachel McAdams e Alessandro Nivola che donano verità all’intreccio. Il peso della credibilità della storia è tutto sulle loro spalle e lo reggono benissimo. In particolare le due Rachel sono protagoniste dell’amplesso omosessuale cinematografico più autentico, e per questo meno scabroso, visto nel cinema mainstream.