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E.T.
lextra-terrestre (Usa 1982-2002) di
Steven Spielberg con Henry Thomas, Peter Coyote, Dee Wallace, Drew Barrymore
A pochi mesi dal rilancio
in chiave declamatoria e memoriale di Apocalypse
Now, torna a affacciarsi, con prepotente foga celebrativa,
un altro monumento dellimmaginario globalistico, un altro tassello
imprescindibile della koinè eidetica della Nuova Hollywood
(gratificato per il suo ventennale da un metraggio filologicamente corretto,
potenziato da un lifting audiovisivo a dire il vero non sempre impeccabile,
sfrondato di tutte quelle nuances che poco appartengono allingombrante
diktat estetico del politically correct).
Ma la vicenda patetica del piccolo extra-terrestre che, abbandonato giocoforza
dai suoi simili, sviluppa un rapporto esclusivo ed osmotico con un terrestre
sullorlo di una crisi di nervi (candidamente intrappolato tra i
primi sintomi di un disadattamento esistenzial-generazionale e i tumulti
di uno psicodramma familiare) conserva a tuttoggi un fascino seduttivo
e una freschezza linguistica a dir poco ammirevoli.
Epopea gnoseologica delluomo comune, esercizio mitopoietico calato
nella medietas borghese, esaustivo florilegio pop declinato come un haiku,
geniale infrazione delle leggi fantastiche todoroviane, E.T.
è un po lepitome della prassi diegetica spielberghiana:
unavventurosa quête tra risonanze bibliche e saccheggio
metacodicale, un road-movie a tappe obbligate tra incontri ravvicinati
e perlustrazione suburbana.
Iperbolico, sfacciato, stucchevole quanto sublime atto di fede nella purezza
trascendente della fantasia infantile e nella salvezza messianica del
diverso, la demologica féerie di Spielberg
(con lapporto fondamentale di Allen Daviau) istituisce anche,
nel bene e nel male, tutta una serie di codici luministici e di invarianti
stilistiche destinati a diventare i topoi del meraviglioso cinematografico
made in USA: la risorsa impressionista del controluce, i movimenti
di macchina che danno respiro ai morceaux visionari, lagilità
del passo ritmico, lo sguardo estatico ad altezza di bambino, lo stringente
rapporto causa-effetto fra spazio filmico e corpi attoriali, i precisi
timbri cromatici che esasperano la linearità iperrealistica di
Norman Rockwell e
secolarizzano limmaginario camp di Frank Capra.
Cè chi vi ha visto lopera di un cinico manipolatore,
chi la vera scaturigine dellinfantilizzazione colonizzatrice dellimpero
merceologico statunitense. I più invece si sono fatti irretire
dal magistero assoluto del nuovo cantastorie, dalla facilità pedagogica
del Disney del Duemila, dal carisma ipnagogico dellArtista popolare
più influente degli ultimi anni.
Difficile stabilire in cosa consista realmente la straordinarietà
fascinatoria di questo oggetto misterioso. Certo è che se a ventanni
di distanza si cade ancora, con meccanicità quasi pavloviana e
abbandono terapeutico, nel sortilegio gentile di questa fiaba evergreen
allora sarà il caso di parlare, semplicisticamente quanto ragionevolmente,
di talento affabulatorio.
E la matrice di questo talento, lintimo segreto espressivo, la chiave
di volta registica laveva trovata forse François Truffaut
quando aveva riconosciuto a Spielberg la capacità,
invero molto speciale, di donare plausibilità allo straordinario.
Se voi analizzate il film vi accorgerete che Spielberg ha girato
tutte le scene di vita quotidiana dandole un aspetto quasi fantastico;
allo stesso modo è riuscito conferire una patina di tangibile quotidianità
a tutte le scene fantastiche.
Semplice no?
ADDENDA PER LEDIZIONE
DEL VENTENNALE: Nellepoca della riproducibilità tecnica
il concetto di malleabilità dellopera darte e la conseguente
perdita di aura del prodotto artistico giustificheranno sempre di più
operazioni come questa. Come il capolavoro di Coppola anche questa
re-release del totem spielberghiano puzza lontano un miglio di mera
mossa commerciale. Le scene aggiunte nulla aggiungono ad un meccanismo
narrativo pressoché perfetto. La prima scena supplementare dissipa
ex abrupto la misura miracolosa delle sottoesposizioni che avvolgevano
le prime scene dellextra-terrestre (poco importa che Spielberg
aveva dovuto tagliarla per il cattivo funzionamento del pupazzo originale).
La seconda interpolazione (nonostante un interessante riferimento sociologico
alla funzionalità liberatoria della festa carnevalesca
di Halloween) è caotica e fuori tono. Labrasione digitale
delle armi dalle mani dei federali, sostituite da innocui walkie-talkie,
niente di più di una minuzia pubblicitaria.
(Marco
Rambaldi)
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