Apocalypse
Now Redux(Usa 2000) di Francis Ford
Coppola con Martin Sheen, Marlon Brando, Robert Duvall, Frederic Forrest,
Albert Hall, Dennis Hopper, Harrison Ford, Scott Glenn
Lui,
Kurtz, ha un'anima selvaggia,
ma la sua è una mente lucida Dennis Hooper (il
fotoreporter)
Proprio come la dualità
che innerva la texture rappresentativa del personaggio Kurtz, la
sua irriducibile Gefüge, così anche Apocalypse
Now, specialmente rivisto oggi, dopo la sua gloriosa sedimentazione
nell'immaginario collettivo, svela la sua innegabile, consustanziale dimensione
dicotomica. Da un lato il capolavoro coppoliano emerge come anamorfico
dispiegamento "materico" (complice l'annichilente allure
plastico della fotografia di Storaro), come dilagante e sinestetica
immersione nel corpo filmico ("this is not a film about Vietnam,
this is the Vietnam").
Dall'altro come programmatica operazione di svecchiamento e rifondazione
della pratica cinematografica, come lucida inferenza metalinguistica.
La sua "anima" selvaggia si respira grazie a quella qualità,
che potremmo chiamare
iperrealismo pervasivo, in virtù della quale ogni sequenza, ogni
segmento
del film rimanda ad una precisa e convincente idea di percezione del
sensibile che, seppur sopra-empirica e ultra-realistica, è perfettamente
sovrapponibile a quella fenomenica. Una "seconda natura" fotografica,
una
baluginante densità corpuscolare, un'immersività orgiastica
e dirompente.
L'arditezza demiurgica, l'assoluto manipolatorio (la profusione abissale
delle dissolvenze incrociate, l'abile commistione dei registri auditivi
e
visivi, l'uso puntiforme del dettaglio significante) diviene l'assoluto
naturale. L'accezione di film-concerto, di cui lucidamente parlava
Laurent
Jullier nel suo saggio Lo schermo postmoderno, trova
in questa pellicola la più antonomastica delle concretizzazioni.
Apocalypse Now è lo Zeitgeist ad alto grado
di formalizzazione, è l'hic et nunc elevato a immaginario
collettivo. Partorita da Hollywood, fabbrica dei sogni di plastica,
luccicante regno delle meraviglie di lattice, seriale officina
del bric-à-brac,
caravanserraglio dell'eteroclito, l'opus magnum di Coppola
stupisce per la sua efficace e compatta impressione di realtà,
per la sua deflagrante impronta di vissuto. Ma stupisce anche per l'ariosa
libertà delle sue sperimentazioni, per la sensualità dirompente
delle sue cadenze, per il vigore pagano delle sue figurazioni.
Suprema e definitiva dichiarazione di poetica, lambiccata cogitazione
autoriale, il war movie coppoliano sconcerta anche per la generosa
dovizia
dei suoi referenti culturali: un po' declinazione frazeriana, un
po'
variazione teorica sul romance di Frye, Apocalypse
Now è un'equorea anabasi
con delle massicce dosi di mistica nietzscheiana e un affastellarsi
di echi
edipici. Ma è soprattutto un tentativo estremo di dare vita, per
il tramite
di un cuore di tenebra, ad un cinema in bilico fra ambizioni europeizzanti
e
smisuratezza hollywoodiana, fra spettacolarizzazione virtuosisitica
e grandeur intellettuale.
Un corpo filmico solido e prismatico cui nuocciono, nel metraggio attuale,
le divagazioni psicologistiche (la farneticante e sterile scena delle
playmate) e le digressioni didascalico-esemplificative (la lunga
sequenza
della colonia francese è una pleonastica sottolineatura storicistica
nonché
una corriva variante del vecchio topos della famiglia tanto caro
al regista
de Il padrino). Aggiunte e interpolazioni che ledono anche
le risonanze
simboliche del film (l'apparizione en plein air di Brando mortifica
e
svilisce la potente suggestione junghiana legata al concetto chiave
di
ombra). Fra le varie aggiunte, che in qualche modo giustificano la
denominazione di Redux, soltanto il divertente episodio della tavola
da surf
si pone come significativa variante tonale, aggiungendo al respiro epico
ed
iniziatico del racconto una nota di svagata follia, un tocco di smaliziato
divertissement.