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11 SETTEMBRE
2001 (Francia 2002) di Samira Makhmalbaf,
Claude Lelouch, Youssef Chahine, Danis Tanovic, Idrissa Ouedraogo, Ken
Loach, Alejandro Gonzalez Inarritu, Amos Gitai, Mira Nair, Sean Penn e
Shohei Imamura
L'attacco alle Twin Towers
raccontato da 11 registi di differenti paesi in 11 film di 11 minuti,
9 secondi e un fotogramma: 11 settembre 2001 appunto. Detta
così la cosa può sembrare la solita menata
intellettualistica all'europea, a rischio di discontinuità stilistica
e narrativa. Eppure ne è scaturito un film compatto, intelligente
e unico, nel senso che va fruito come racconto unico e non come vetrina
di short. La caduta, il ritornare verso il basso, verso la terra,
a una dimensione più accessibile alla ragione umana sembra essere
il leitmotiv non detto e perciò miracoloso del film.
Quest'idea della profondità è richiamata fin dal primo fotogramma
del film, nell'episodio dell'iraniana Makhmalbaf. Il film si apre
sull'immagine di un pozzo da cui a fatica viene estratto un secchio d'acqua
(acqua che deve servire a costruire mattoni di fango per un rifugio contro
le bombe della rappresaglia americana). Quasi un contraltare, un alter
ego visivo sia alle torri che troppo in alto si stagliano nel cielo
(troppo lontano dalla terra e dalla ragione degli uomini), sia al delirio
narcisista di chi con troppa facilità invoca le altezze divine
alla testa di guerre sante. Può Dio sterminare gli uomini?
fa dire la regista iraniana a un bambino. Ironico e tenerissimo è
l'episodio di Idrissa Ouedraogo, dove quattro ragazzini africani
cercano di catturare Bin Laden allo scopo di incassare la taglia
per comprare finalmente le medicine necessarie a salvare la madre malata
di uno di loro. Eccezionale la battuta che chiude l'episodio con i quattro
amici che vedendo partire Bin Laden con le lacrime agli occhi esclamano
Bin Laden, torna da noi, abbiamo bisogno di te.
Ken Loach ci regala, invece, l'episodio narrativamente più
intenso e coraggioso accostando all'11 settembre 2001 un altro 11 settembre,
anche questo un martedì, quello del 1973 quando l'esercito cileno
(con l'aiuto della CIA) attaccò la Moneda, il palazzo
presidenziale di Allende. La terra e la caduta anche nell'episodio
di Sean Penn. La terra è quella di una piantina che non
riesce a fiorire, simbolo di una donna morta che un uomo anziano (uno
straordinario Ernest Borgnine) metaforicamente non riesce a seppellire
non riuscendone ad elaborare il lutto. La caduta delle torri farà
arrivare finalmente un raggio di sole sul davanzale della casa dell'uomo,
facendo rifiorire la piantina, ma anche mettendo finalmente l'uomo di
fronte alla consapevolezza della perdita. L'episodio di Penn, anche
per fattura filmica è forse il più bello degli undici e
da solo vale il prezzo del biglietto. E' il ritorno alla terra nell'episodio
del giapponese Shohei Imamura dove un soldato disgustato dagli
orrori della terra decide di uscire dal consesso degli uomini per trasformarsi
in un serpente, strisciando, ventre a terra, per il resto della sua vita.
L'epigrafe che chiude quest'episodio e tutto il film rimanda all'inizio,
chiudendone il cerchio Non esistono guerre sante.
All'uscita il film è
stato accusato di antiamericanismo. Francamente, l'obiezione pare ridicola.
L'attacco dell'11 settembre (è forse superfluo anche accennarlo
dopo il tanto che è stato visto e detto) ha significati politici,
storici, persino epistemologici così generali; è stata una
frattura del contemporaneo così esiziale che non può che
appartenere a tutti. Come il naufragio del Titanic in piena belle
époque è stata l'occasione per guardarsi un attimo dentro.
Poi tra qualche tempo, si può essere certi, tutto tornerà
come prima. Intanto ci godiamo questo tentativo di pensare quell'evento
uscendo dal pensiero unico, con uno sguardo a 360 gradi, uno sguardo che
va nel profondo, smarcandosi dalla retorica patriottica che nulla spiega.
Non siamo tutti americani. No, proprio non lo siamo.
(Giulio
Arcopinto)
Leggi la recensione
di Giacomo Fabbrocino
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