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The Dreamers (Inghilterra, Francia, Italia 2003) di Bernardo Bertolucci, con Eva Green, Michael Pitt, Louis Garrel.

Bertolucci realizza finalmente il tanto caldeggiato film sul Sessantotto, scomponendo il periodo in tre volti che si intersecano: quello sociale, delle appassionate se non infuocate dimostrazioni collettive che fronteggiano le schiere dei poliziotti; quello culturale, mediato dall’amore del regista per il cinema, la letteratura, la musica e le arti in generale, che all’interno di The dreamers costituiscono sia oggetti che mezzi di rappresentazione; e quello privato, che il film privilegia e concepisce quale fucina di elaborazione degli altri due volti. Ma il ritratto del Sessantotto, le cui istanze e modalità sono considerate dal regista, in opposizione ai numerosi “revisionisti”, delle acquisizioni esistenziali fondamentali per la storia dell’occidente e tuttora degne di essere alimentate e portate avanti (non per nulla le scene con i dimostranti ricordano quelle dei No Global trasmesse e non trasmesse dalle televisioni), non costituisce un’apologia, bensì una messa in luce sia degli slanci libertari positivi, sia delle loro contraddizioni. Tale calibrata eppure semplice espressione di senso ruota appunto intorno alla descrizione della vita privata, anzi intima, di tre personaggi, una ragazza e un ragazzo fratelli gemelli (gli attori Eva Green e Luis Garrel) e un loro amico (Michael Pitt), studenti universitari che instaurano un morboso ménàge a trois, che si alimenta di una trasgressiva critica ai valori rigidi e rassegnati della famiglia e della tradizione, ma che rimane anche invischiato in un gioco di prove, di sfide, di dipendenze nel quale si ripropongono, come tenaci forze inconsce, quei valori e quei comportamenti che si vogliono superare. Se, dunque, da un lato il rapporto incestuoso di Isabelle e Théo rappresenta, in positivo, la liberazione del desiderio e l’abbattimento di qualunque regola autoritaria, dall’altro lato è il segno della catena dell’esclusivismo egoistico che è necessario spezzare per aprirsi veramente agli altri, per far compiere alla nuova cultura il salto nel collettivo e cambiare veramente il mondo. È questa la prospettiva interpretativa che rende il film degno di essere visto, apprezzato e meditato, al di là dei suoi meriti meramente estetici: la dimensione del collettivo salva la dimensione individuale dall’autodistruzione, come dimostra la bella trovata narrativa per la quale i tre protagonisti scampano alla morte per asfissia grazie ad un sasso lanciato da un manifestante. L’idea rivoluzionaria efficace e profonda, quindi, parte dalle singole coscienze e torna in esse dopo essersi impregnata di uno sguardo panoramico e unitario, sembra dire Bertolucci. E sarà proprio Matthew, inizialmente il più confuso, il meno teorico dei tre personaggi, in parte pesce fuor d’acqua in qualità di americano a Parigi, a cercare di aprire ulteriormente gli occhi ai fratelli contestatari; ma non ci riuscirà, tanto che Isabelle e Théo torneranno a chiudersi in una unità siamese e monadica ripristinando la tradizionale logica della violenza. Per questa ragione è possibile affermare che il Sessantotto del fervente sessantottino Bertolucci non è tutto rose e fiori e non nasconde le proprie incrinature, anzi le sottolinea in alcune situazioni di deliberata sgradevolezza, che fanno virare verso perversioni lynchane l’avvolgente intensità di una carica erotica e sensuale fortemente esibita dai generosi corpi (soprattutto quello opulento e minuziosamente indagato di Eva Green) scelti dal buon Bernardo.

(Leonardo Speranza)

leggi la recensione di Marco Rambaldi

 


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