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Caterina va in città (Italia
2003) di Paolo Virzì con Sergio Castellitto, Alice Teghilin, Margherita
Buy, Antonio Carnevale, Claudio Amendola, Flavio Bucci
Il padre di Caterina, frustrato insegnante
di ragioneria, ottiene finalmente il trasferimento da Montalto di Castro
a Roma. Per Caterina, studentessa di terza media, la grande
città sarà un difficile paese delle meraviglie.
Virzì girerà pure bene, ma i suoi film, con la scusa
della commedia
all'italiana come genere da rispettare e far risorgere, si abbandonano
sempre a facili schematismi e a buonismi irritanti. Un esempio per tutti:
qui, come in Liberi, c'è un padre che, in preda alla
depressione si mette in
pigiama e si chiude in casa, ma mentre, nel film di Tavarelli,
il personaggio interpretato da Luigi Maria Burruano arrivava a
questo punto perché aveva perso improvvisamente il lavoro, qui
il "dramma" del personaggio di Castellitto è,
udite udite, non riuscire a far parte dell'élite intellettuale
(nonostante, in fondo, come scrittore non valga nulla). Virzì,
insomma, evita accuratamente di posare lo sguardo sui reali problemi del
Paese di cui vorrebbe fornire - il film sembra urlarlo a gran
voce in ogni fotogramma - un "sagace spaccato" ed edulcora,
semplifica,
anestetizza. La scena in cui il sottosegretario di AN e lo scrittore
di
sinistra (padri di due compagne di classe di Caterina, opposte
leader, a
loro volta, degli schieramenti di destra e di sinistra in aula) conversano
amabilmente rivela chiaramente che l'unica morale del film è "E'
tutto un
magna magna". E, lasciatecelo dire, è un po' pochino.
Ovviamente, come in Ovosodo, il tutto si risolve in un'aberrante
esaltazione della mediocrità come condizione in cui l'uomo con
(o senza) qualità può
trovare la felicità senza troppo curarsi delle ingiustizie commesse
dai potenti. Deleterio.
(Giacomo Fabbrocino)
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