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La tigre e la neve (Italia 2005) di Roberto Benigni con Roberto Benigni, Nicoletta Braschi, Jean Reno

Attilio de Giovanni (Benigni) insegna poesia (sic!) all'università ed è anche un grande poeta. Amato dai suoi studenti, dalla critica e da una procace professoressa scandinava egli soffre, però, per amore di Vittoria (Nicoletta Braschi), scrittrice impegnata che non cede alla sua corte spietata, e, anzi, si fa beffe del povero corteggiatore.

Quando Vittoria, recatasi in Iraq al seguito del poeta Fuad (Jean Reno) sul quale sta scrivendo un libro, rimane gravemente ferita e cade in coma, Attilio la raggiunge e cerca di fare tutto il possibile per salvarle la vita nonostante la carenza di medicinali ed attrezzature ospedaliere. Al risveglio di Vittoria, tuttavia, Attilio non potrà vederla perché imprigionato dall'esercito angloamericano.

 

Dopo il deludentissimo Pinocchio Benigni torna ad occupare quasi una sala su tre con questo film che riprende esattamente da dove La Vita è bella ci aveva lasciati: lì ad ascoltare quanto sia brutto il brutto e bello il bello e quanto la poesia e la fantasia siano salvifiche. Il problema è che, qui ancora più che nel film sull'olocausto, il bello rimane solo enunciato, categorizzato, evocato a bocca larga, ma mai realmente attuato esteticamente attraverso il sistema cinema (e poesia è, anche etimologicamente, l'arte di fare). Peggio! I tentativi di illustrare la bellezza miracolosa della poesia si concretizzano in versi improbabili recitati da Attilio alle figlie quali “Come sei bello pipistrello / questa è la finestra” (cito imprecisamente, ma rendo l'idea), mentre il film in sé, ossia in quanto découpage, fotografia e cinesica, stenta a trovare una corrispondenza credibile tra forma e contenuto. Le inquadrature sono solo al servizio dell'altezza figurativa di un protagonista sempre in campo e le invenzioni visionarie, come quella dalla quale si è ricavato il titolo del film, sono troppo penalizzate, oltre che da una valenza simbolica poco efficace, da una realizzazione tecnica arretrata di dieci anni rispetto all'immaginario contemporaneo rivolto all'immagine di sintesi. La sola sequenza d'apertura, un sogno del protagonista in cui si officia un matrimonio alla presenza di Tom Waits al piano, riesce a colpire ed anche a commuovere, ma, guardacaso, tra le sequenze “poetiche” del film, è l'unica che non sembri urlare.

Abbastanza fastidioso risulta anche il gioco che gli sceneggiatori (lo stesso Benigni e Vincenzo Cerami ) hanno realizzato condendo i dialoghi di decine di citazioni poetiche non dichiarate. Se il loro scopo consisteva nel dimostrare quanto il linguaggio poetico sia assimilabile al quotidiano, almeno ad un ideale quotidiano migliore di quello reale, tale scopo non viene raggiunto poiché ciò che si ottiene è invece un retrogusto da bigino, da appunto sul risvolto della manica. Il verso viene ridotto a motto, la poesia a saggezza popolare, il cinema a spettacolo autocelebrativo.

Rimane che la visione di questo film non potrà certo fare del male a nessuno e lodevoli sono senza dubbio le intenzioni: elogiare la poesia e ripudiare la guerra; ma viene da chiedersi cosa si sarebbe potuto ottenere da questa materia se a darle forma fosse stato un regista più audace e più cinematografico e, in fondo, si rimpiangono i film comici con i quali Benigni offriva l'unica alternativa intelligente ai vari Pieraccioni, Boldi e De Sica.

 

(Giacomo Fabbrocino)

 

Benigni e la Braschi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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