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La Promessa
(USA 2001) di Sean Penn con Jack Nicholson, Benicio
Del Toro, Robin Wright-Penn, Harry Dean Stanton, Aaron Eckhart, Sam Shepard
Difficile resistere, di primo
acchito, alla tentazione ermeneutica di leggere La promessa
come un elegante e sottilmente compiaciuto esercizio mimetico. Certo è
che gli elementi registici che più saltano agli occhi in questa
terza, convincente prova del popolare attore promosso a director,
sono lo sguardo contemplativo e l'estasi "animista" con cui
vengono osservati l'uomo e il paesaggio nonché la visionarietà
distesa con cui viene polarizzato il contrasto fra natura e cultura. Il
lungo periodo passato sul set con Terrence Malick, durante la lavorazione
de La sottile linea rossa, e la feconda complicità
creativa sviluppatasi in sala di montaggio, hanno lasciato più
di un segno nel Penn regista. Basti come prova il ricercato e meditato
impiego delle strumentazioni sonoro-visive: il ricorso al minimalismo
espressionista di Hans Zimmer per la musica (già prezioso
collaboratore di Malick) e la scelta dell'iperrealismo luministico
e della souplesse plastica dell'operatore Chris Menges,
dimostrano una consapevolezza linguistica e una padronanza tecnico-formale
davvero ammirevoli. Non che tutto riesca alla perfezione a Penn.
In talune sequenze è come se venisse a mancare, vuoi nelle improvvise
cadute del ritmo narrativo vuoi nella precarietà estetizzante di
certe metafore liriche, proprio quel mirabile controllo espressivo che
è invece cifra stilistica imprescindibile del regista texano. Ma
La promessa resta pur sempre un'opera di riguardo. Specialmente
se
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considerata nel
contesto di quel preciso sistema produttivo ed estetico che è il
cinema hollywoodiano, questa trasposizione filmica del celebre romanzo
di Dürrennmatt palesa una freschezza d'ispirazione, una originalità
d'intenti e un piglio sovversivo che la elevano molto al di sopra di qualsivoglia
etichetta di cinema di genere.
Penn si tiene alla larga dai cliché, orchestra l'andamento
del racconto facendo a meno della suspense, modula l'intreccio ricorrendo
a cadenze introspettive, dissolve le attese spettatoriali con una deliberata
operazione di casting against type (la recitazione in minore del
solitamente gigionesco Nicholson - in una delle sue caratterizzazioni
più sobrie e dolenti - e, assolutamente geniale, l'utilizzo straniante
del caratterista Tom Noonan), così mostrando la sua orgogliosa,
persino spavalda, libertà autorale e la possibilità, o meglio
necessità, di un percorso poetico personale anche nella più
corriva congerie del cinema mainstream.
E così quella malinconia sfiancante e quello spleen anestetizzante,
che impregna le ampie volute del racconto, vengono ad agglutinarsi, a
rapprendersi nella risoluzione della vicenda. Ed è qui che il film
svela la sua intima ragion d'essere e il prezioso progetto filmico che
lo sottende. Consegnare all'ambiguità e alla disfatta il preciso
disegno dell'investigazione e della ricerca. Quel biascichio pazzoide,
quel tormentoso trasecolare di Nicholson che incornicia simmetricamente
il racconto, e che corrisponde allo stordimento sensoriale e all'afasia
interpretativa dello spettatore, è il risultato delle focalizzazioni
narratologiche che si sovrappongono e si confondono. Penn ha cioè
l'arditezza di rispondere, tramite il balbettio dell'atomizzazione enunciativa
e la dispersione prismatica del punto di vista, all'implacabile regime
asseverativo che caratterizza da sempre, e che qualche volta ha ingabbiato,
la prassi operativa di Hollywood. Impagabile tributo e lucida trasposizione
filmica dell'universo poetico di Dürrennmatt, splendido cantore
dello scacco di ogni velleità sistematizzante, del trionfo beffardo
del caso, della struggente malia dell'ossessione e soprattutto di quella
grottesca e allucinata ronde che si chiama esistenza.
(M.R.)
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