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La
cultura della pittura
L’arte
di Salvatore Morra-Supino vive di una pittura
coltissima che, guardando con indelebile passione ad una certa
figurazione napoletana, capitalizza, come meglio non si può,
la lezione dei due grandi maestri della pittura moderna: da
una parte l’empatica capacità analitica di Cézanne,
dall’altra la natura sensibile eppure terribile di Francis
Bacon. Una pittura, la sua, che, seppure abbia conosciuto
la potenza del gesto e dell'evidenza materica (soprattutto
in una fruttuosa serie di dipinti dell’inizio degli
anni Ottanta, quando, abbandonata un’iconografia e un
simbolismo di notevole impianto al servizio di un discorso
cui non erano aliene le istanze sociali e politiche di quegli
anni, ritrovava il segno libero di un certo informale), è
perennemente tesa a velare, se non a cancellare del tutto,
nel suo segno, qualsiasi indicatore deittico, ovvero qualsiasi
traccia dell’umano, convinto com’è che
l’arte sia sempre faccenda più dello spirito
piuttosto che avvilita ombra del mondano. È questa
tensione spirituale, del resto, che gli ha permesso di costruire,
in oltre cinquant'anni di attività, un corpus pittorico
di grande suggestione animato, contemporaneamente, da una
straordinaria potenza espressiva e da un raro impegno etico
e, tout court, filosofico.
Presentiamo, in questa mosta, undici dipinti:
sette tele di grandi dimensioni della prima metà degli
anni Novanta e quattro lavori più recenti nei quali
– ancora più urgente lo spirito critico in questi
mala tempora di lutto e ipocondria universale e forse, proprio
per questo, più struggente la necessità della
fabula – l'impianto si fa più figurativo presentando
temi e suggestioni di maggior afflato drammatico. È
il caso di Quo
vadis, in cui il vessillo dell'incubo di füssliana
memoria è sostituito dall'imperio di un irrisolvibile
e definitivo memento mori, o di La
chiave un autoritratto del 2002 nel quale, tra
rifiuti, grumi e grovigli, un'enigmatica chiave appesa ad
un muro alle spalle dell'artista, consegna allo spettatore
la dolorosa illusione che possa almeno l'Ermeneutica essere
il passepartout giocondo per la Felicità o il pietoso
analgesico per l'insanabile certezza dell'uomo dell’oblio,
di non potersi dire, cioè, eterno. E quello della memoria
è un'altra costante di Morra-Supino
evidente in un bell'olio del '92 dal programmatico titolo
Come
i biscotti per Proust, opera dove le teorie bergsoniane
della rimembranza trovano, attraverso una pittura di fattura
squisita e la costante della linea circolare, in eteree dissolvenze
cromatiche, brandelli felici delle immagini di un onirico
passato.
Segnaliamo qui, infine, un ultimo dipinto, quel Vesuvio,
lavoro del '92, che, attraverso toni di straordinaria sensibilità
e un impianto decisamente monumentale, si prefiggeva, citando
le campiture gentili di un Piero della Francesca,
di stemperare gli esiziali miasmi dello “Sterminator
Vesevo” in eruzione con la dolce antinomia di un ironico
intrecciarsi di forme leggiadre lievi per l'aere, colorate
dei tre primari appena ingentiliti da tenui bianchi, lampi
di luce nella promessa algida e mantenuta del terrore della
morte quasi a ricordarci come, in un convinto neoplatonismo,
fa lo stesso artista, come “la morte e la vita, lo sterminio
e il brulicare inossidabile dell’esistenza, il male,
il bene, l'ombra, la luce... appartengono, in fondo, sempre
ad una medesima, imperscrutabile Unità. Che qualcuno
chiama Dio, altri Destino, e altri ancora Ragione. Ma c'è
chi, ed io con loro, si ferma un attimo prima di pronunciarne
il Nome. Qualsiasi nome. Bastandogli, per sognare l'eterno,
l'incanto dell'instancabile e necessaria Ricerca del Senso.
Ovvero – questo sì – del Divino.”
Corrado
Morra
Nota
biografica
Nato a Napoli nel 1934, dove vive e lavora, Salvatore
Morra, che firma Morra-Supino dall'87
in omaggio alla madre scomparsa, esordisce a sedici anni in
una collettiva al Parnaso, galleria, non
più attiva, della Riviera di Chiaia. È del '57
la sua prima personale. Tra gli anni Sessanta e Settanta è
particolarmente attivo tra la costiera sorrentina e il salernitano,
dove firma una serie di interessanti esposizioni.
Nel '76 espone a Milano e poi a Foggia
mentre tra il '79 e l'83 è legato all'esperienza breve,
ma affatto interessante della Bilancia, una
galleria nel cuore dell'area flegrea. Sempre nell'83 è
in Svizzera, a Meisterschwanden,
per una mostra alla Del Mese-Fischer e, nello
stesso anno, a Los Angeles, per la prima
personale oltreoceano. Ancora dell'83, prodotta dal Comune
di Ercolano, è la sua unica esposizione d'impianto
decisamente concettuale (le geometrie de I cerchi della vita),
e dell'anno successivo una mostra presso la Vilar
di Bruxelles. Nel giugno dell'85, infine, partecipa
a Seetal, una complessa collettiva ancora
a Meisterschwanden.
Tranne apparizioni sparute, da quel momento seguono vent'anni
di silenzio espositivo, ma di non meno costante e sofferta
ricerca artistica che sfocia oggi in questa retrospettiva
napoletana.
Le
Pieghe: un ciclo di mostre “nascoste”
Comincia, con questa esposizione, Le Pieghe,
il primo ciclo espositivo prodotto all'interno del nuovo spazio
di Pigrecoemme a Piazza Portanova (Napoli),
che presenterà, con cadenza bimestrale, una serie di
eventi di comunicazione visiva che, di volta in volta, si
preoccuperanno di dar luce ad artisti, temi, suggestioni,
fantasmi, rimandi, persi tra le pieghe del franchising culturale
cittadino o, ancor peggio, non ancora svelati.
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L'esposizione
è visitabile dal lunedì al venerdì, dalle
10 alle 16, fino all'11 marzo
Info: info@pigrecoemme.com
--------- tel.
081 5635188 |
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2005 Pigrecoemme
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