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Cast Away
(Usa 2000) di Robert Zemeckis con Tom Hanks,
Helen Hunt
Cast Away: making not made
Ma come fanno i marinai? "Intorno al mondo come un pacco postale
/ senza nessuno che gli chieda come va", si interrogavano, in
un'estate abbastanza accaldata della fine degli anni Settanta, un De
Gregori e un Dalla alquanto più ispirati di adesso,
epoca di Ulivi e piadine bolognesi mangiate al trionfo della destra.
E come fanno tutti quanti, non solo i sailors cantautorali, nel
naufragio della solitudine, a tener su uno straccio di intelletto vispo,
illudendosi pure di coltivare un briciolo d'amore (simulacro è
il galeotto, nel film, graffito primitivo sulle grotte a fingere la ragazza
persa in città, con tutta la disperazione apotropaica di quei disegni),
è invece, giusta la domanda da cui parte Robert Zemeckis
nel suo Cast Away. Ed il regista, dopo averci raccontato
il just for one life dell'eroe per caso Forrest Gump alla
levità della piuma (la freccia puntatrice del desktop del
fato), spoglia Tom Hanks delle Nike e gli fa calzare il
fisico adamitico e ascetico del naufrago/abbandonato.
E in Cast Away, l'uomo non corre più, a differenza
dell'Idiota Gump (il primo personaggio mercuriale senza cervello,
e qui il genio dell'autore che calca il proverbio). Sono le cose a farlo.
Sono le merci, anzi, che impadronitesi della postura biologica (i pacchi
della Fedex, ditta di spedizioni per cui Hanks lavora, hanno
le ali, e non gli uccelli, il pallone di volley, il volto espressivo,
non certo gli amici) vivono come scimmie tutta la vita al posto degli
uomini. E l'uomo, non più nella "ing form" del
suo fare, esiste solo come participio passato: fatto. Il film è
qui: nel set da costruire del protagonista, per cui non ci sono più
le cose che qualcun altro ha fatto per noi. E la pellicola è questa,
la costruzione da zero di un set e quindi della vita.
Meraviglioso e riuscito, il film è stato soltanto tradito dall'ufficio
stampa della produzione e da una serie da guiness di recensori
che, all'epoca dell'uscita, insistevano sull'apologo dello spietato manager
costretto dal destino a ripensare se stesso e il mondo e su quanta sia
cinica la civiltà capitalistica. E, invece, è racconto equidistante,
asettico, sempre più snello, come il protagonista, a mano a mano
che si arriva all'epilogo del ritorno del naufrago nella civiltà.
Grana e luci che, sull'isola, alludono alla finta oggettività documentaristica
di National Geografic, Cast away ci regala un finale
aperto su un crocicchio polveroso: plot che in quel bivio non si
risolve solo perché, con tutto il coraggio del caso, l'artista
Zemeckis non sceglie. Bellissimo.
E poi, in questo film, c'è pur sempre la più grande scena
di addio tra un protagonista e uno sponsor che la storia del cinema
ricordi: Wilson, il pallone di pallavolo meglio pettinato del mondo,
perso nei marosi ed Hanks che s'abbandona al pianto, con l'intera
platea.
(Corardo
Morra)
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