Giovedì 20 febbraio è stato distribuito nelle sale italiane Cattive Aque (Dark Waters), diretto da Todd Haynes. La pellicola racconta una vicenda realmente accaduta, un caso inquietante e pericoloso a livello mondiale. Mark Ruffalo interpreta Robert Bilott, un avvocato ambientalista protagonista dell’estenuante battaglia legale durata ben diciannove anni (e non ancora conclusa) contro il colosso chimico DuPont. Con ostinazione, Bilott ha rappresentato settantamila cittadini dell’Ohio e della Virginia, la cui acqua potabile era stata contaminata dallo sversamento incontrollato di PFOA (acido perfluoroottanoico).
Ci vuole coraggio a sfidare il Potere e i Potenti, ma non solo. Non si tratta di andare in contro alla paura, quanto piuttosto di tollerare le conseguenze psicologiche di una tale azione. Bilott lentamente si consuma, perde ogni certezza, si sente solo e viene definito persino pazzo, perde l’affetto delle persone a lui più care. È quindi sufficiente avere solo coraggio? Ci vuole molto di più. C’è bisogno – paradossalmente – di un senso di incoscienza. È la salute mentale, oltre quella fisica, che viene meno.
Cattive Acque smuove le coscienze e invita a riflettere sul fatto che ci sono volte in cui bisogna sapersi difendere da soli, rischiando persino di guardare in faccia la morte. La pellicola è mesta, ma potente ed impegnata. Non basta neanche impegnarsi per diciannove anni per ottenere giustizia: non si smette mai di combattere. Bilott sta ancora lottando. C’è un desiderio irrefrenabile di verità, lo stesso che aveva mosso i cronisti del Washington Post in “Tutti gli uomini del presidente”: abbiamo bisogno che vengano raccontate queste storie, e ne avremo sempre bisogno.
Cattive Acque inevitabilmente rimanda ad altre opere simili: tutte storie vere, tutte battaglie combattute – e vinte – da uomini e donne comuni, con cui si empatizza. Quello che accomuna le storie è la tenacia, la voglia di difendere la vita e di non sottostare ad abusi o a forme di coercizione.
Erin Brockovich – Forte come la verità racconta il dramma di Erin Brockovich (interpretata da Julia Roberts, premio Oscar 2001 come Migliore attrice): una donna sola, con due divorzi alle spalle e tre figli. Estremamente tenace, diretta, spesso anche sfrontata, riesce ad imporsi come segretaria in uno studio legale, pur non essendo un avvocato. Seguendo una pratica immobiliare, entra in possesso di alcuni documenti e, spinta dalla curiosità e da un forte senso di giustizia, inizia ad indagare per poi scoprire che uno stabilimento di un’importantissima industria della zona ha scaricato nelle acque di una cittadina della California una sostanza fortemente cancerogena.
Steven Soderbergh tratteggia l’immagine di un’antieroina. Erin si esprime in maniera volgare, si veste volutamente in maniera provocante: è interessata a farsi ascoltare piuttosto che farsi apprezzare. È diretta e decisa, ottiene ciò che vuole perché non ha paura, conosce la sofferenza e non vuole che nessun altro la provi. Erin però, più di tutto, sa cosa si prova nell’essere ignorati e nel sentirsi invisibili: è questo che la spinge a lottare. La pellicola non cade mai nella retorica, semplicemente perché non ne ha bisogno. Non c’è nulla da ostentare.
A Civil Action è, invece, la dimostrazione di come non sempre le cose si risolvono come dovrebbero: chi agisce secondo giustizia può sentirsi libero, ma non per forza sarà apprezzato. In questo caso, è l’avvocato Jan Schlichtmann (John Travolta) ad insistere per arrivare alla verità: con il suo piccolo studio legale fa causa a due potenti industrie del Massachusetts, colpevoli di aver inquinato le acque di Woburn provocando la morte di dodici bambini.
Schlichtmann arriverà al punto di essere sommerso da debiti pur di portare avanti la lotta e arrivare allo scontro finale in aula. Ne uscirà sconfitto materialmente, ma moralmente arricchito. Volterà le spalle all’egoismo e alla vigliaccheria, mostrandosi un avvocato nel senso più alto del termine. Si potrebbe leggere il film come un’affettata dichiarazione d’amore all’eccessivo senso di giustizia, ma di fondo la storia raccontata resta onorevole e degna di essere approfondita.
In Michael Clayton, infine, c’è una scelta da prendere: riscattarsi o continuare ad agire ignorando i principi morali? Michael Clayton (George Clooney) lavora per un importante studio legale. È abituato a vivere distorcendo la realtà a suo piacimento: falsificando i fatti per “aggiustare” le cose e coprire i guai dei suoi clienti, impegnandosi nel frattempo nel gioco d’azzardo – sua più grande passione – e a convivere con debiti sempre più ingestibili.
Arriva per forza, però, il momento in cui bisogna fare i conti con la propria coscienza: l’occasione si presenta quando si trova a dover affrontare il caso di una grossa società che opera nel settore dei prodotti chimici, chiamata in causa per l’immissione sul mercato di un prodotto altamente cancerogeno. Michael Clayton fa la scelta giusta, e qui per giustizia si intende non solo rispetto della vita altrui, ma ribellione nei confronti di una vita vissuta costantemente con le mani “sporche”. È che per far parte della categoria “avvocati brillanti” bisogna adattarsi e piegarsi ad una serie di regole immorali. Clayton (consapevole di aver vissuto accettando compromessi) preferisce ripulire e ripulirsi. La sua vittoria è contemporaneamente una redenzione.