Oscar 2020 – I film candidati

film candidati all'Oscar 2020

Mariantonietta Losanno è un’ex allieva del corso di Analisi e Critica che, giovanissima, ha fin da subito mostrato competenza, passione e curiosità. Già durante il corso fu autrice di una playlist sulla rappresentazione del lavoro al cinema molto centrata e interessante. In questi anni Mariantonietta ha recensito film per diverse testate on line, conseguendo anche il tesserino di pubblicista. Ora torna a scrivere per il blog di Pigrecoemme con un pezzo sui nove film candidati all’Oscar che si assegneranno nella notte tra il 9 e il 10 febbraio. Siamo felici di ospitare nuovamente Mariantonietta Losanno perché, nella critica così come nella formazione e nel lavoro, Pigrecoemme si ripropone da sempre di seguire gli allievi più talentuosi anche nel loro percorso successivo. Buona lettura.

Partiamo da Storia di un matrimonio e Piccole donne, le due pellicole che dimostrano quanto sia forte e condiviso il bisogno di tenerezza.  

Noah Baumbach con Storia di un matrimonio firma un’opera complessa ed ambiziosa che mostra gli effetti devastanti della fine di un amore. Charlie è un regista teatrale d’avanguardia, Nicole, oltre ad essere la sua compagna, è la sua prima attrice e la sua musa. Insieme hanno un figlio, Henry, di otto anni. Il regista non si limita a rappresentare quello che Charlie e Nicole erano, ma cerca di mostrare al pubblico che un sentimento può ancora (r)esistere, benché consumato. Come si salva, dunque, un amore? Non sempre si può, ed è quello che Baumbach tenta con delicatezza di affermare. Proprio come Kramer contro Kramer (il riferimento al film è immediato), diretto da Robert Benton, Storia di un matrimonio eccelle per la sua semplicità, naturalezza ed aderenza alla realtà. Non si tratta solo di mettere in scena immagini ad effetto di una felicità ormai lontana, l’intento è quello di dimostrare che certe volte bisogna avere il coraggio di lasciare andare qualcuno quando si è arrivati al punto di farsi troppo del male. Quello che resta, però, è una forma indissolubile di rispetto e, inevitabilmente, di affetto. In entrambe le opere, sia in Storia di un matrimonio che in Kramer contro Kramer, si prende parte all’iter giudiziario (che prevede una condotta da mantenere e assegna alle parti un ruolo da recitare) per l’affidamento dei figli. È doloroso pensare come tutto si riduca a questo: ad una lotta spietata per stabilire chi dei due genitori è quello più “adatto” ad educare i figli. E allora entrano in gioco anche altri aspetti, su cui il regista sceglie di non soffermarsi troppo, come la differenza dei ruoli, i luoghi comuni e le forme di discriminazione. Storia di un matrimonio provoca grande sofferenza, ma al tempo stesso rincuora: l’amore può assumere sempre nuove forme. Il pubblico resta attonito, viene prima colpito e poi consolato. È concreta la voglia di rivalsa. Può capitare che due persone innamorate non si riconoscano più, come se fossero travestiti in una loro versione imbruttita. Quello che è altrettanto vero è che si può anche reagire: insistendo, lottando affinché quel sentimento non svanisca, o lasciandolo andare provando a trasformare quel legame, in modo che resti ugualmente in piedi.

Piccole donne è parte di ognuno di noi: l’importanza di questo classico della letteratura firmato da Louisa May Alcott nel 1868 è imprescindibile. Greta Gerwig ha riadattato il libro con intelligenza (alternando Piccole donne a Piccole donne crescono), dando una nuova energia a personaggi tanto amati e conosciuti. Li ha resi più attuali, facilitando così un’immedesimazione più spontanea. Ritroviamo Jo, Meg, Beth e Amy con lo stesso carisma, le rivediamo unite ed affiatate pur avendo caratteri diversi, le incoraggiamo (incoraggiando al tempo stesso anche noi) ad inseguire i loro sogni con determinazione, e a non soccombere alle regole di una società patriarcale. Queste piccole donne sovvertono la tradizione (non tutte con la stessa intensità e tenacia) pur di seguire le proprie inclinazioni. Il film, come il romanzo, non ha bisogno di imporre il tema femminista: chiunque lo abbia letto o abbia potuto godere della nuova rivisitazione cinematografica si è reso conto di quanto sia implicita l’idea di solidarietà. È, infatti, una lettura solitamente consigliata in età adolescenziale, proprio perché aiuta a conquistare una forte autostima. Nel tratteggiare i caratteri non si avverte la necessità di descrivere delle eroine, quanto piuttosto delle giovani e fiere donne, che hanno voglia di crescere e dimostrare quello che valgono senza bisogno di adeguarsi ad una mentalità bigotta. Perché non è detto che una donna debba necessariamente sposarsi per sentirsi completa ed accettata dagli altri: questo concetto oggi potrebbe sembrare persino banale (per quanto sia ancora presente), ma basti pensare all’epoca dell’uscita del romanzo per comprenderne l’importanza. Piccole donne, oltre ad essere un classico intramontabile, è un’opera di cui tutti abbiamo bisogno. Viene, però, da chiedersi se c’era davvero necessità di un altro riadattamento, ma l’audace regia di Greta Gerwig fornisce un’occasione per apprezzare ancora di più le caratteristiche dei personaggi, rivivere i paesaggi e i romantici costumi dell’epoca. In particolare, la Gerwig si rivede nel personaggio di Jo, una donna libera che al posto di impegnarsi come le sue sorelle a cercare marito, si dedica alla stesura del suo libro e lotta per farsi strada nel mondo maschilista dell’editoria. Per questo, dunque, la sua rivisitazione è strettamente personale: la regista, infatti, si è concessa delle piccole libertà, non ha replicato l’opera pedissequamente. Questo rappresenta un valore aggiunto: la rivisitazione in chiave contemporanea aggiunge senza scardinare lo schema di Louisa May Alcott. Il messaggio può modificarsi in base al tempo. Greta Gerwig si è avvalsa inoltre di un cast stellare: Meryl Streep, Emma Watson, Saoirse Ronan, Florence Pugh, Thimotheé Chalamet.

Proseguiamo con le due prove di autori conclamati: The Irishman e C’era una volta a Hollywood

Tre ore e mezza che sembrano volare via e che danno la possibilità di (ri)celebrare un cast d’eccellenza e al tempo stesso comprendere più a fondo l’intera cinematografia di Scorsese. Il regista torna a raccontare il mondo dei gangster, ma l’opera si distacca significativamente dai cult Quei bravi ragazziCasinò, anche la voce che racconta gli avvenimenti è lenta, calma, quasi dimessa. The Irishman mostra, dunque, un altro lato di Scorsese, quello malinconico. Si evince innanzitutto dal fatto che è stata impiegata una cifra ingente (circa centosessanta milioni di dollari) per, tra le altre cose, ringiovanire tre attori quasi ottantenni (Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci), al posto di ingaggiarne altri più giovani: “Desideravo fare un film con i miei amici”, spiega con semplicità, e anche un po’ di tenerezza, il regista. È per questo che The Irishman è una sorta di diario o di album fotografico, uno di quelli che si ha il piacere di riprendere in mano per rivivere dei ricordi. Non che ci fosse bisogno di dimostrare la grandezza di queste star, anzi: l’intento è più che altro un bisogno personale, quello di Scorsese in primis ma anche degli attori, di (ri)palesare la loro stima reciproca e realizzare un tipo di cinema di cui il pubblico ha bisogno. Questo è fare cinema ed è un mescolarsi continuo tra presente e passato: Al Pacino è ancora il potente Michael Corleone in altre vesti, Robert De Niro il solitario protagonista di Taxi Driver, Joe Pesci il Tommy DeVito di Quei bravi ragazzi. The Irishman è memoria e innovazione. Potremmo, dunque, definirla come l’opera più autobiografica di Scorsese: è un lento ed emotivo denudarsi di un regista, di un attore, di un’intera stagione di cinema durata più di cinquant’anni. The Irishman è un film puro, che si sofferma sullo scorrere del tempo, che lascia al pubblico l’amara consapevolezza di trovarsi di fronte alla fine di un’epoca. Non è, però, una rassegnazione, quanto piuttosto un’accettazione.

Grandissime aspettative sono state riposte, così come per The Irishman, anche per C’era una volta a Hollywood, il nono (e forse penultimo) film di Tarantino. Non ci si orienta facilmente in una pellicola del genere, bisogna sicuramente avere una preparazione sufficientemente adeguata alle spalle per poterne apprezzare il valore. Con C’era una volta a Hollywood Tarantino tira le somme, torna su tutti gli aspetti del suo cinema, mettendo ogni cosa in chiaro, come se si trovasse a scrivere un testamento. Nelle sue opere c’è tanto cinema, e C’era una volta a Hollywood è esattamente questo: c’è cinema ovunque. Questo permette di comprendere l’incontrollabile passione di Tarantino che ha mosso la realizzazione di questo come degli altri film. Come Scorsese, anche Tarantino si è servito di un cast di amici per realizzare il suo desiderio di rivivere (e far rivivere al pubblico) il suo cinema: in due ore e quaranta vediamo Brad Pitt fare a botte con Bruce Lee, DiCaprio riflettere sul suo mestiere di attore, Margot Robbie/Sharon Tate andare al cinema a vedere se stessa. Quello che si avverte è un senso di stanchezza, non solo di nostalgia. È come se Tarantino fosse esausto, smarrito. Si entra in un universo nuovo, ben lontano da Le iene o da Pulp fiction; C’era una volta a Hollywood è un racconto in cui i generi si confondono (e creano confusione anche nello spettatore) senza continuità e linearità. Al di là di una preparazione adeguata, c’è da impiegare uno sforzo per muoversi in quest’opera senza rischiare di perdere le redini. Il pubblico si sente quasi tagliato fuori, come se per Tarantino ci fosse solo il bisogno di fare i conti con se stesso, piuttosto che realizzare una dichiarazione d’amore al cinema. Ci sono tanti piccoli mondi che confluiscono in un unico, ma in cui si fa fatica a comprendere ciò che li lega. Qualcosa di fiabesco deve, però, esserci per forza: Tarantino, in fondo, ci crede ancora che il cinema possa salvare il mondo. Forse parte delle energie sono andate perse, ma il cinema può ancora riscrivere la storia.

In sfida ci sono poi anche i classici che rispettano la tradizione: 1917 e Le mans ‘66 – La grande sfida. 

Sam Mendes (American Beauty, Skyfall, Revolutionary Road) racconta la Prima Guerra mondiale. La pellicola è spaventosamente silenziosa, di un silenzio doloroso. Formalmente in due piani sequenza, il film trasmette il senso di angoscia, focalizzando (quasi ossessivamente) l’attenzione sui personaggi. I dialoghi sono praticamente assenti, ci si concentra maggiormente sul lato umano. 1917 non è soltanto un film di guerra ricostruito in maniera fedele e accurata: si avverte soprattutto la paura, la disperazione, la stanchezza; si respira la stessa sensazione avvertita dai protagonisti in trincea, c’è la morte, la distruzione, il senso di vuoto. La scelta è stata consapevole: piuttosto che servirsi di effetti speciali (che ovviamente non mancano), Mendes ha preferito incentrarsi sugli uomini. Lo spettatore sente di essere anche lui in guerra: 1917 è un’esperienza sensoriale a cui non si può restare indifferenti. Quello che rende l’opera ancora più realistica è la scelta di raccontare un momento della guerra poco conosciuto (quando ci si poteva concentrare su altri sicuramente più noti), proprio per mostrare ancora di più la volontà di raccontare davvero la guerra, non solo quella che siamo stati abituati a vedere altre volte sul grande schermo, o quella che abbiamo studiato a lungo sui libri di scuola. 1917 è un racconto vero, e la scelta del cast (in cui compaiono attori nuovi) è un’ulteriore conferma del fatto che il regista non ha cercato di ostentare nulla. I protagonisti sono uomini prima di essere eroi, lottano per evitare che avvenga l’ennesimo spargimento di sangue. È tangibile il terrore, la voglia di restare in vita. 1917 è un’impresa cinematografica di grandissimo rilievo. Non ci sono pause, è un’unica e sola scena che prosegue all’infinito. E, d’altronde, è la guerra ad essere così, a non concedere mai tregua o distrazioni. Le scelte registiche pongono, dunque, il pubblico nelle stesse spaventose condizioni dei personaggi. 

Le mans ’66 – La grande sfida è un’opera adrenalinica ed entusiasmante, che racconta la storia di due avversari: da un lato Ford, e il suo concetto di macchina popolare adatta a tutti; dall’altro Ferrari, dallo stile opposto, con l’idea di macchina simbolo di eccellenza e unicità. Una sfida tra scuole di pensiero, che coinvolge particolarmente lo spettatore (soprattutto gli amanti dei motori). Dietro la macchina da presa c’è James Mangold che dirige con energia due ore e mezza di vero e proprio spettacolo, in cui non ci si può permettere di staccare gli occhi dallo schermo neanche per un istante. Impossibile poi non apprezzare Matt Damon e Christian Bale e il loro modo di esaltare le caratteristiche dei personaggi che interpretano. Le mans ‘66 celebra l’ambizione e si presenta come film “classico” che riesce a trasportarci dietro al volante e a raccontare una storia complessa in modo avvincente e tecnicamente eccelso.

Arriviamo alla grande novità, il thriller coreano Parasite. Viene subito da chiedersi come quest’opera abbia ricevuto così tanti consensi (ha vinto la Palma d’oro al 72º Festival di Cannes, diventando il primo film sudcoreano ad aggiudicarsi tale riconoscimento ed è stato candidato a sei premi Oscar): come è riuscito il regista Bong Joon-ho ad ottenere un risultato simile? La storia è apparentemente semplice: una famiglia in condizioni disastrose fa di tutto (e per tutto si intende agire d’astuzia e ricorrere a qualsiasi mezzo lecito ed illecito) pur di ottenere un lavoro. Fino a qui niente di sconvolgente. La particolarità consiste nel fatto che Parasite riesce ad alternare momenti di alta tensione (si arriva persino ai livelli angoscianti di Yorgos Lanthimos), ad altri altamente drammatici ed attuali. È inaspettato e sorprendente. L’importante è avere un piano, e sicuramente Bong Joon-ho l’ha avuto per poter realizzare quest’opera. Se si riesce a giocare bene le proprie carte e a fare le proprie mosse al momento giusto, le cose vanno alla perfezione. C’è chi può permettersi il lusso dell’innocenza e dell’ingenuità e chi deve ingegnarsi per poter restare in vita. È come se lo spettatore partecipasse ad un gioco in cui non si possono commettere errori, si potrebbe addirittura rischiare la vita. Parasite racconta una lotta di classe, in cui i poveri riescono così tanto a soggiogare i ricchi da riuscire a controllare le loro vite e ad anticipare ogni loro possibile reazione. Parasite si è infiltrato nelle candidature proprio come una parassita e sembra non avere alcuna voglia di mollare la presa.

Jojo Rabbit è uno di quei film che fa bene al cuore e che scuote anche gli spettatori più restii alla commozione. La pellicola diretta da Taika Waititi mostra l’impatto della Guerra su un animo innocente. Jojo ha dieci anni e il suo amico immaginario è Hitler: è lui a consigliarlo e a infondergli coraggio, è a lui che deve render conto prima di prendere qualsiasi decisione. Jojo non crede che esistano alternative, la sua fede è totale ed è praticamente nata in maniera automatica, senza grandi motivazioni alla base. Tutto assume un’altra poesia quando si tratta di bambini, non ci si può non emozionare di fronte a bambini che si fingono adulti e che pensano di poter sterminare tutta la razza ebraica e poi si domandano come distinguerli, dato che sono uguali a tutte le altre persone. Jojo, soprannominato “Jojo rabbit” per prenderlo in giro data la sua incapacità di uccidere un coniglio, scopre l’amore e il rispetto per l’essere umano in un modo così tenero che è impossibile per il pubblico non empatizzare. Quale modo migliore per denunciare il nemico se non con fantasia e ironia? Jojo rabbit è una pellicola fresca e sincera, che ride del nazismo ed esalta i sentimenti.  

Concludiamo con Joker. Chiunque lo abbia vista non ha potuto far altro che restare attonito di fronte all’interpretazione di Joaquin Phoenix. In questa pellicola il dolore è tangibile in ogni più piccolo dettaglio. Gli sguardi, le risate, le musiche che sembrano urla di sofferenza e di solitudine. Arthur Fleck è un emarginato, un rifiuto della società, la sua malattia lo porta ad agire con una violenza sconcertante che non fa sconti per nessuno. Phoenix descrive perfettamente i deliranti disturbi di un uomo solo e costantemente maltrattato psicologicamente e fisicamente: la nota più rilevante è il fatto che il film sia raccontato dal punto di vista (malato) di Joker stesso. È, quindi, realmente tutto vero quello che accade o si assiste solo a giochi di fantasia? L’opera è leggibile a più livelli, non c’è nessuna certezza a cui affidarsi in maniera totale. Joker è un’esperienza da vivere in modo viscerale.  

 

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