Se è martedì, deve essere il Belgio recitava il titolo di una famosa commedia inglese del 1969 diretta da Mel Stuart. E, a dirla tutta, fino a qualche decennio fa era, forse, l’unico collegamento tra il Belgio e il cinema che uno spettatore medio potesse fare. Colpa della vicinanza (geografica e, per una parte del territorio, linguistica) con la ben più influente, cinematograficamente, Francia. Fin dalle origini, ché alcuni dei più citati esempi di precinema sono opera di belgi (Étienne-Gaspard Robert detto Robertson con le sue fantasmagorie; Joseph Plateau ed il fenachistoscopio) operanti, però, a Parigi, dove, ufficialmente, nacque il cinema nel 1895. E così in futuro. Charles Spaak, Jacques Feyder sono nomi ricorrenti nel cinema francese dei tempi d’oro, sebbene di origine belga. Da questo punto di vista, il rapporto tra Francia e Belgio ricalca un po’ quello tra Usa e Canada (“Odio il Belgio” “Come tutti” è uno scambio di battute tra due personaggi di The Memory of a Killer di cui parliamo dopo): amore/odio, continue prese in giro, ma poi continua cooptazione di maestranze artistiche. Eppure, negli ultimi tempi, il cinema belga è diventato forte. Perché, oltre agli autori da festival (come i fratelli Dardenne o Jaco Van Dormael, anch’essi, però, operativi soprattutto in Francia), ha sviluppato una solida (o almeno più solida della nostra) industria che, opportunamente, punta sui generi, anche se dai generi ed intorno ai generi riesce, spesso, a dar corpo ad un cinema artisticamente interessante anche oltre i confini (negli ultimi 4 anni ben due pellicole candidate all’Oscar come film straniero, Bullhead e Alabama Monroe, battono bandiera belga). In questa playlist cerchiamo di darne conto.
1 – Ben X di Nic Balthazar
Poteva essere un capolavoro, un film generazionale, un cult movie ed invece nessuno se lo ricorda. Forse perché arrivato dopo Donnie Darko o magari perché, quasi contemporaneamente, la sindrome di Asperger veniva resa più accessibile e divertente dallo Sheldon Cooper di The Big Bang Theory. E che dire di quanti avranno evitato il film pensando ad una versione live action di Ben 10? La verità è che l’opera prima di Nic Balthazar non ha il coraggio di arrivare fino in fondo per quanto riguarda la confusione tra piano della realtà e piano videoludico (che è del protagonista e, grazie alle scelte di regia, nostra) e, nella seconda parte, scade nel moralismo tipico della fiction tv. Ma, forse, proprio per questo è un buon prodotto di genere.
2 – Rundskop/Bullhead di Michael R. Roskam
Bullhead, invece, capolavoro lo è. La cornice è quella di un gangster movie, ma Roskam maneggia ingredienti risaputi in maniera originale, mostrando grande personalità (e, dopo la candidatura all’Oscar, Hollywood lo ha chiamato per dirigere The Drop scritto da Dennis Lehane). Le Fiandre, il racket della carne che coinvolge allevatori, veterinari, ispettori sanitari, e Jacky (quel Matthias Schoenaerts che noi abbiamo conosciuto in Un sapore di ruggine e ossa di Jacques Audiard e che è presente in ben 4 dei film di questa lista), un personaggio che sembra uscito da un film di Scorsese, in bilico tra la violenza cui sembra destinato e la fragilità di un animo (e di un corpo monco) che cerca di nascondere tra montagne di muscoli gonfiati con quegli stessi ormoni che vengono somministrati ai capi di bestiame.
3 – Vampires di Vincent Lannoo
Un mockumentary? L’ennesimo mockumentary? Sui vampiri? Ad onor del vero, il feeling tra Belgi e finto documentario ha anticipato, e di molto, il trend attuale. Il cameraman e l’assassino (complessissimo lavoro che riflette sul confine etico tra oggetto e soggetto dello sguardo), diretto da Rémy Belvaux, André Bonzel e Benoît Poelvoorde (quest’ultimo diventato poi una presenza pressoché fissa delle commedie francesi di maggior successo), è del 1992, sette anni prima di The Blair Witch Project e molti di più del boom recente. Il film di Lanoo, comunque, ha anticipato il neozelandese What We Do in the Shadows, ma, quanto a divertimento e idee geniali, i due falsi docu si equivalgono. Una “normale” famiglia di vampiri (che il Belgio non persegue perché i “succhiasangue” servono da “ammortizzatore sociale” sui generis, in quanto, grazie a loro, si risolve il problema di trovare una collocazione per immigrati, barboni e portatori di handicap) deve affrontare la ribellione della figlia (che non riesce a farla finita e vuole tutto “rosa pastello”, anche la bara in cui dorme) e poi è costretta ad emigrare in Canada dove il leader della comunità locale (che è stato comparsa il La corazzata Potëmkin) pretende che i vampiri lavorino come ogni umano per favorirne l’integrazione.
4 – Welp/Cub – Piccole prede di Jonas Govaerts
Homo homini lupettus. Tra Il signore delle mosche e Non aprite quella porta, un finto film per ragazzi, di una crudeltà che nessuna cinematografia occidentale, attualmente, parrebbe potersi permettersi. Un vero pugno nello stomaco, stranamente (o, forse, per errore) distribuito anche in Italia.
5 – De Behandeling/The Treatment di Hans Herbots
C’è un rimosso nell’immaginario belga che è quello di Marcinelle. La pedofilia è alla base di questo cupo thriller, nichilista quanto un Fincher d’annata, forse un po’ troppo derivativo, ma in fondo, il cinema medio che regge un’industria non è questo?
6 – Linkeroever/Left Bank di Pieter Van Hees
Primo capitolo di una “trilogia dell’amore e della sofferenza” (cui hanno fatto seguito Dirty Mind e Waste Land), Linkeroever, pur spaziando tra il Polanski di Rosemary’s Baby e il seminale The Wicker Man (e ci metterei anche una spruzzatina di Poltergeist di Tobe Hooper), riesce comunque ad essere originale ed a smarcarsi dalle matrici ritagliandosi uno spazio tutto suo in un immaginario, quello belga, fortemente cattolico.
7 – Pulsar di Alex Stockman
Pulsar è decisamente irrisolto, forse perché punta troppo in alto. Nel suo tentativo di dipingere un paranoico 2.0. (che lo sia davvero? e se facessimo bene ad esserlo tutti?) non è incisivo quanto una splendida pellicola, dimenticata (anzi, in Italia, mai distribuita), quale Noise di Henry Bean, ma per tre quarti sembra riuscirci, fallendo solo nel finale.
8 – Loft di Erik Van Looy
Van Looy è il più commerciale, il meno artista di questo lotto. La sua regia non va oltre lo stile di un telefilm tedesco al di sopra della media (quindi non eccelso, comunque) ed infatti questo thriller, abbastanza scontato, vanta ben due remake: uno tedesco ed uno americano firmato dallo stesso Van Looy.
9 – De Zaak Alzheimer/The Memory of a Killer di Erik Van Looy
“Tutti parlano di Bruges, ma secondo me è meglio Anversa” dice un tassista al vecchio killer protagonista di questo film, sempre di Erik Van Looy, in cui fa la sua comparsa, nuovamente, il tema della pedofilia, quella delle alte sfere, però, che rivela anche una classe politica corrotta e corruttrice. La confezione resta quella da film tv del sabato sera su RaiDue.
10 – The Strange Colors of Your Body’sTears di Hélène Cattet & Bruno Forzani
Hélène Cattet & Bruno Forzani rappresentano un caso a parte. Le loro opere (Amer e questa, ma hanno anche partecipato all’horror a episodi The ABC’s of Death con O for Orgasm) vanno più nella direzione della videoarte. La visione dei loro film è più vicina all’esperienza sensoriale nella quale, tuttavia, è innegabile l’influenza dello spaghetti thriller anni ’70. E dove Amer attingeva a Dario Argento, qui il referente principale è il Sergio Martino di Lo strano vizio della signora Warth e Tutti i colori del buio (ma il titolo allude anche a Perché quelle strane gocce di sangue sul corpo di Jennifer? di Giuliano Carmineo). I due registi, tuttavia, hanno fin troppa personalità per fare del semplice cinema bis (Forzani è responsabile delle rassegne di cinema bis presso il Museo del cinema di Bruxelles) e, sebbene sia arduo pensare ad una classica distribuzione in sala (ma The Strange Colors è più narrativo del precedente), i loro film andrebbero visti obbligatoriamente. Ora sono al lavoro sulla trasposizione di un romanzo di Manchette, Laissez bronzer le cadavres.
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