Lo sciacallo, la scimmia e il lupo di Wall Street

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Lo sciacallo (titolo italiano che fa pensare ad un remake, ma probabilmente scelto per paura che l’originale Nightcrawler facesse pensare ad un altro spin-off del franchise Marvel degli X-Men) aspirerebbe, nelle intenzioni, ad essere L’asso nella manica 2.0, ovvero a raccontarci l’amoralità e la manipolazione mediatica nell’era del giornalismo partecipativo. Sembra un po’ la scoperta dell’acqua calda.
A dispetto dell’ottimismo debordante dal manifesto dei blogger tedeschi del 2009 in cui si leggevano cose al limite dell’ingenuità quali “Internet è la vittoria dell’informazione”, i fatti hanno dimostrato che, con buona pace di McLuhan, il medium non è il messaggio, ma, semmai, la forma del messaggio.
Il messaggio è sempre lo stesso e quasi sempre è manipolato.

Lou Bloom, il protagonista del film di Dan Gilroy (fratello del più celebre Tony, sceneggiatore della saga di Jason Bourne nonché regista di Michael Clayton, Duplicity e di The Bourne Legacy), è un ladruncolo che scopre, quasi per caso, quanto possa rendere il videoreportage alla continua ricerca di notizie ed immagini forti (incidenti, sparatorie, ferimenti, morti). La sua sostanziale assenza di etica fa sì che passi, in breve, dal cercare le notizie a crearle, a provocarle.
Una novità? Per niente. In The Cameraman (noto in Italia col sottotitolo Io e la scimmiaBuster Keaton (la cui mancanza di partecipazione agli eventi che riprende, un po’ sembra ispirare quella sorta di autismo emotivo del personaggio interpretato da Jake Gyllenhaal), durante un conflitto a fuoco a Chinatown, dapprima dà un calcio ad un uomo provocando una lite tra quest’ultimo e colui che crede colpevole e poi, caduto ad uno dei due il coltello, provvede a raccoglierlo ed a riposizionarglielo nella mano per poi continuare a filmare.

http://youtu.be/zo85hdekH4w?t=54m3s

Lo sciacallo fallisce, quindi, nel suo voler assurgere a manifesto della amoralità del new journalism, dello “you reporting” (semplicemente perché non c’è niente nel videogiornalismo 2.0. che non sia già stato perpetrato), ma centra un altro obiettivo: quello di dipingere un personaggio, questo sì tipico di quest’epoca. Lou Bloom è un disadattato, un autodidatta bulimico la cui scuola sono i motori di ricerca, uno che si trasforma man mano in un sociopatico, ma senza che questo implichi giudizio morale (né suo né nostro) perché, semplicemente, la libertà della rete fa sì che niente sia filtrato e tutto ciò che apprende e mette in pratica per ottenere un risultato sia passibile di giudizio solo sulla base dell’effettivo ottenimento del risultato. Ovvero il machiavellico fine che giustifica i mezzi, nell’era 2.0., ha assunto connotazioni ancor più mefistofeliche in quanto non importa più neanche che fine sia, anche quello del lucro individuale va bene.
E qui interviene il parallelo tra il protagonista di Lo sciacalloJordan Belfort ovvero The Wolf of Wall Street. Se una differenza segnano queste due pellicole, rispetto ad altre del passato, è la presa di coscienza, da parte dei due autori, che la amoralità, oggi, è la via principale del successo.
Nel caso di Belfort si tratta della realtà: un uomo che ha fregato mezza America con le sue azioni spazzatura ed ora, pur essendo stato beccato, si trova a lucrare sulla sua vicenda (autobiografia e diritti per la trasposizione di Scorsese), ma, dato più inquietante, facendo il consulente in corsi motivazionali.

Anche Lou Bloom, che uccide e fa uccidere persone pur di avere il suo scoop, alla fine non subirà nessun contrappasso, ma, anzi, la sua impresa diventerà un’impresa di successo.

È il Terzo Millennio, bellezza!

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