La bellezza del diavolo è forse il titolo più utilizzato nelle trasposizioni del Faust gothiano. Così è intitolato un film di Renè Clair, datato 1950, con Michel Simon e Gérard Philipe (interprete, tre anni prima, per restare in tema sulfureo, dell’adattamento per il grande schermo, a firma Autant-Lara, di Il diavolo in corpo di Raymond Radiguet) e lo sono anche due albi a fumetti (di Demon Hunter e John Doe) mentre il numero 6 di Dylan Dog, uscito nel marzo del 1987, si intitolava, al pari di questa analisi, La bellezza del demonio. In particolare, nella sinossi di questo storico albo che si può legger sul sito della Bonelli, si dice: “Larry Varedo era il miglior killer sul mercato prima di quel lontano giorno del 1945, cinico e freddo come un orologio. Ma quando gli chiesero di uccidere Mala Behemoth, il suo ghiaccio si sciolse. Era così bella, così irraggiungibile, quasi fosse un fantasma o… un demone!“. La bellezza, quindi, è pericolosa. Ecco cosa pare volerci dire, nel suo ultimo lavoro, Nicolas Winding Refn.
Che Refn sia un esteta, che sia particolarmente attento alla composizione dell’immagine, non è certo una scoperta. Lascia perplessi il fatto che, proprio ora, nell’ultimo capitolo di una trilogia del ritorno in America (dopo la prima trasferta, fallimentare, di Fear X) che comprende anche Drive e Solo Dio perdona, un manipolo di detrattori rimproveri al regista danese di essere un formalista. E già, perché per chi scrive, era l’osannato Drive a peccare forse di manierismo fine a sé stesso ed appena un po’ meno Solo Dio Perdona, mentre The Neon Demon, apparentemente il più debitore di certa vacua estetica glamour Eighties (tra Miami Vice e Tony Scott, al cui Miriam si sveglia a mezzanotte, la scena iniziale nel night club rende un preciso tributo), è forse la pellicola che ha più da dire non solo sulle forme del contemporaneo (cosa che NWR non manca mai di fare), ma anche sulle essenze. In quest’opera Refn chiude il cerchio: la forma del digitale, quella modificabile/migliorabile/ritoccabile, ha fortemente indirizzato il nucleo etico del contemporaneo per cui la “bellezza naturale”, quella della protagonista Jesse, è un pericolo e contemporaneamente un demone nel senso di ossessione. Non l’ossessione di una contessa Bàthory che si immergeva nel sangue di giovani vergini per perpetuare la sua giovinezza (ed alla Bàthory si fa riferimento nel redde rationem del prefinale), ma una neo(n)ossessione nel senso che, in un’epoca in cui l’immagine sembra essere solo quella filtrata da occhi digitali (di fotocamere, telefonini, software di fotoritocco), una bellezza naturale è manifestazione divina. Jesse è il demone, è l’ossessione di chi si trucca o trucca per raggiungere la bellezza, le tre streghe (matres come quelle di Suspiria cui il regista di Pusher ruba molto, come fa con Inferno e forse anche Tenebre del nostro Dario Argento), una trinità del male richiamata anche dal triangolo nel quale la protagonista si specchia vedendo il suo alter ego rosso passionale (triangolo che arriva dalla psicomagia di Jodorowsky, amico e consigliere di Refn, figura determinante sia in La montagna incantata sia nel Dune mai fatto, che, però, qui ha la punta rivolta verso il basso, gli Inferi, e non verso il cielo, oltre ad essere la classica iconografia dell’ “origine del mondo”).
Jesse/Alice non attraversa lo specchio, ma è attraversata dallo specchio (una scheggia le lacera la mano) sicché non è più esso, specchio, l’oggetto delle brame di streghe/matr/igne, ma Jesse stessa. E mentre gli uomini del film, mere funzioni, vogliono solo proteggerla (il giovane fotografo), possederla (il fotografo esperto), eliminarla (l’affittacamere serial killer), dirigerla (lo stilista simil Tom Ford), le altre donne, più che cancellarla, bramano di ri-farla, di cannibalizzarla, di catturarne l’anima (il cui “specchio” sono gli occhi). Insomma, scavando nei soliti numerosi riferimenti metatestuali (non ultimo il nome dell’agente che introduce Jesse nel mondo della moda, Roberta Hoffman, come quell’ E.T.A. autore dei Racconti notturni, in cui figura la novella Der Sandmann, ispiratrice sia di Eva Futura che del robot di Metropolis ed analizzata da Freud nel suo scritto Das Unheimliche, altro rimando non peregrino visto che Jesse non ha né è casa e potrebbe essere un fantasma gotico per quanto, sul trampolino, appaia sospesa nell’aria; o ancora, il Cat People di Paul Schrader, sia nella scena dell’home invasion del puma sia per lo scenario apocalittico su cui scorrono i titoli di coda), stavolta Refn sembra parlarci del contemporaneo e non solo della forma sfuggente, ma anche di un nucleo problematico della società dell’immagine digitale, tema che, probabilmente, genitore di una tredicenne, è per lui particolarmente sentito.