I 10 migliori film del 2023

Non saremo i Cahiers du Cinema, non saremo Sight & Sound, ma a nostro modo anche la nostra lista dei dieci migliori film dell’anno è una tradizione. Come il panettone e il presepe.
Istruzioni per l’uso: non è una classifica, i film presenti sono solo quelli distribuiti in Italia nel 2023 e, last but not least, che sono riuscito a vedere. È un gioco e come tale va preso. Ci saranno titoli che per voi non ci dovrebbero essere o che addirittura è assurdo che ci siano e mancheranno titoli per voi imprescindibili. Che dire? À la guerre comme à la guerre. Buona lettura.

1) Leila e i suoi fratelli di Saeed Roustaee
Nessuno vuole fare finta che il cinema non sia cambiato, che l’immaginario videoludico non abbia colonizzato la settima arte e non è mia intenzione stracciarmi le vesti o rimpiangere un passato che può essere ancora celebrato attraverso il recupero dei classici. Saeed Roustaee, tuttavia, dimostra che un grande cinema popolare è tuttora possibile, che si possono ancora girare scene di massa con centinaia di comparse “vere” (una scena in fabbrica come quella dell’incipit forse solo in I compagni di Monicelli, manco in Petri). Il titolo richiama Visconti (più quello italiano, a dire il vero), ma i numi tutelari di Roustaee sono Monicelli appunto, Scola, Coppola (il matrimonio). Leila e i suoi fratelli è il grande romanzo iraniano. E già, perché la famiglia Jourablou è una sineddoche dell’Iran che soffoca le donne per mantenere vive tradizioni sclerotizzate solo per motivi economici. La protagonista ci viene presentata mentre fa una terapia per dolori alla schiena perché è lei a reggere il peso di una famiglia sciagurata, ostaggio di un (aspirante) patriarca imbelle e anaffettivo. Un film enorme, un film che dovreste pretendere di vedere dopo le abbuffate di personaggi generati da algoritmi, per poter rispecchiarvi, nel bene e nel male, nell’umanità che, in fondo, esiste ancora.

2) Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti
Netflix vuole il momento what the fuck e lui, Giovanni/Nanni, gli dà il what if. Come Tarantino, l’esteta della violenza, colui che l’ha resa seducente: il contrario del Kieslowski di Breve film sull’uccidere. Perché se la storia non si fa con i se, i film sì ed è questa la magia del cinema. In fondo anche l’ultima opera di Moretti è una sorta di bilancio della propria carriera (come Spielberg, Sorrentino, magari meno come Branagh). Del resto, a proposito di bilancio, vorrebbe girare un film da Il nuotatore di John Cheever (da cui è stato già tratto Un uomo a nudo di Frank Perry). Qualcuno potrebbe definirla autocelebrazione, ma l’impressione è che un’opera apparentemente solare e ricca di umorismo (la scena in cui tiene in ostaggio un set per dissertare di rappresentazione della violenza è degna del miglior Woody Allen) nasconda una terribile sofferenza per ciò che non si è più. Giovani, innanzi tutto. E in sintonia col presente. No, Giovanni non lo è. Non è a tempo: è stonato quando canta Noemi (Sono solo parole: un cambio di rotta da Le parole sono importanti?) e quando batte le mani su Think di Aretha Franklin. E, diversamente dal solito, resta più volte senza, le parole (quando conosce il fidanzato della figlia, di fronte ai producer di Netflix). Di’ qualcosa, Giovanni. E Giovanni la dice. E la dice pure di sinistra. Così quel what if finale riguarda la Storia e anche la storia del suo cinema che può continuare a esistere nonostante intorno sia tutto cambiato. E che marcia accanto a lui in un epilogo felliniano, ma che non avrebbe sfigurato neanche in un musical di Boris Barnet. E già, perché, alla fin fine, quel musical antistaliniano con Silvio Orlando, sebbene non nei panni del pasticciere, Nanni Moretti lo ha fatto. E noi gli vogliamo bene per questo.

3) Bussano alla porta di M. Night Shyamalan
Nessuno più del sottoscritto può essere felice della ritrovata maestria di M. Night Shyamalan (appannata anche negli ultimi lavori, per quanto osannati). Bussano alla porta è un film bellissimo, sfiora il capolavoro, ma soprattutto un’opera che racconta il presente, sebbene non per quello che dice in superficie.
SEGUONO SPOILER (di romanzo e film) – LEGGETE DOPO LA VISIONE (E DOPO LA LETTURA DEL LIBRO).
Gli altri bambini hanno un solo papà“. Lo dice Wen a Leonard, nell’incipit, e rappresenta la vera chiave di lettura dell’adattamento che Shyamalan fa di La casa alla fine del mondo di Paul G. Tremblay e di cui cambia il finale. Perché nel libro Wen muore, uccisa accidentalmente da uno dei padri, e alla fine il sacrificio non sarà compiuto. Bussano alla porta è sicuramente speculare a E venne il giorno, ma lo è ancor di più rispetto a The Village (lì la realtà si rivelava una menzogna, qui si fatica a credere che non lo sia), l’ultimo lavoro meravigliosamente politico del regista di Il sesto senso prima di Bussano alla porta. Il mago del twist, nella sua ultima fatica, torna a costruirne uno, che, però, non è diegetico, ma paratestuale, di interpretazione. Si parla di fede (Shyamalan lo fa da Praying with Anger), di apocalisse, di Covid, di postverità, di rifiuto a credere e sì, anche di libero arbitrio, ma è un trompe l’oeil. L’epilogo, tutt’altro che lieto, ci dice che la paura della coppia gay di protagonisti non era infondata perché questo è un mondo, così tanto precipitato nel suo oscurantismo, che scatena piaghe bibliche se una bambina non torna ad avere “un solo” papà.

4) Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese
In superficie, il regista di Gangs of New York torna a sconquassare il mito fondativo dell’America: un paese nato sul sangue, lo sterminio, il sopruso, il profitto e il furto. Tuttavia la violenza esplode di tanto in tanto e sono lampi in un impianto stilistico che, invece, ricorda più Silence che i gangster movie di cui Scorsese è maestro riconosciuto. Il che non significa che il regista non sia consapevole di trarre uno “spettacolo” da una storia vera, come sottolinea quella sorta di True Crime radiofonico che, nel finale, informa sui destini dei protagonisti e in cui il cameo di Scorsese dà conto dell’imperativo morale che ne ha ispirato e motivato la regia. Più profondamente, Scorsese ci mostra i lupi nell’immagine che Hollywood cerca di dare di sé. William Hale, il personaggio interpretato da Robert De Niro, si fa sineddoche di un’ideologia woke che, lungi dall’essere la tirannia delle minoranze denunciata dai detrattori, si rivela l’ennesimo travestimento di un’industria culturale che, proprio come Hale (“amico”degli Osage), si traveste da baluardo di equità e giustizia sociale mentre persegue solo e unicamente il profitto.

5) L’ultima notte di Amore di Andrea Di Stefano
Vi dico un titolo: Nuit blanche di Frédéric Jardin. Non posso dire vi sblocco un ricordo, perché lo avrete visto in pochi (quanti sono i frequentatori di Rai 4). Dico Nuit blanche in quanto, più che il poliziottesco o il crime alla Di Leo, L’ultima notte di Amore mi ha fatto pensare a questo nero francese contraddistinto da unità di luogo e di azione (o al polar sporco di Marchal). Lì una discoteca, qui un tratto autostradale mirabilmente utilizzato come teatro di gran parte dell’azione e dell’intreccio. Andrea Di Stefano fa sicuramente tesoro dell’esperienza americana e costruisce un racconto teso e senza un solo momento di stanca. Facce giuste, ottima direzione degli attori che credono a quello che fanno (Linda Caridi bravissima).

6) Decision to Leave di Park Chan-wook
In fondo chi è innamorato è come un detective: cerca indizi che gli dimostrino di essere ricambiato, a volte tende trappole, fa domande. La detection amorosa contempla anche l’inseguimento, il ghosting, la violazione della privacy. Ma le immagini, per quanto possano essere universali, possono ingannare anche più di una traduzione non fedele (Jang Hae-joon non ha mai detto “ti amo”, ma in qualche modo lo ha detto). Park Chan-wook ci consegna una delle storie di amor fou più struggenti degli ultimi anni (e forse di sempre), tra Mia dolce assassina di Claude Miller e Vertigo di Hitchcock con un po’ di Insomnia, ma nessuna delle ispirazioni deborda tanto da farne un calco. Decision to Leave è del tutto originale, è estremamente erotico (pur con solo un bacio tra i protagonisti) e ha uno degli epiloghi più belli di sempre.

7) R.M.N. – Animali selvatici di Cristian Mungiu
Csilla, forse, è l’unico personaggio “in vena di amore” ed è per questo che si esercita a suonare la soundtrack firmata da Shigeru Umebayashi per il capolavoro di Wong Kar-wai. Si distingue dagli altri abitanti del villaggio, probabilmente ridotti “as bestas” e di qui il titolo italiano. Perché, a pochi mesi dalla distribuzione del film di Sorogoyen (che non figura in questa playlist per un’incollatura, ma anche perché con questo e Il male non esiste condivide tematica e poetica), è giunto nelle sale l’ultima fatica di Cristian Mungiu che, con quella del regista spagnolo, ha molto in comune. O, perlomeno, almeno fino al lungo piano sequenza dell’assemblea cittadina perché, di lì in poi, il film deraglia meravigliosamente in una direzione metafisica in cui la “luccicanza” del piccolo Rudi si fa metafora di una situazione esplosiva che anche un bambino sa poter finire solo con l’autodistruzione e gli orsi quasi si antropomorfizzano. Mungiu gira un film corale, sì, ma in cui la coralità non rappresenta l’eterogeneità bensì serve a sottolineare quanto l’ignoranza sia radicata e diffusa trasversalmente. Coram populo si assiste a un’esplosione di luoghi comuni, stereotipi razziali, rancori sopiti tra le etnie presenti nel villaggio. Perché, alla fine, si è sempre zingari di qualcuno.

8) Foglie al vento di Aki Kaurismäki/The Old Oak di Ken Loach
In Tempi moderni, per l’ultima volta, Charlot e la sua compagna si allontanano dalla mdp nell’ultima inquadratura camminando verso un orizzonte e un futuro (si spera) migliori. Successivamente Chaplin farà ancora questa camminata, ma nei panni di Monsieur Verdoux e sarà affiancato da un secondino che lo accompagna al patibolo. Aki Kaurismäki ritorna all’allontanamento dei protagonisti come cammino verso una vita meno brutta (e il nome del cane è abbastanza chiaro su questo punto). Faremmo male a dare per morti cineasti come Loach e Kaurismäki perché The Dead Don’t Die e lottano insieme a noi. Così come peccheremmo nel vedere in Foglie al vento un divertissement atemporale perché, se è vero che dei Nokia obsoleti, gli internet café, i telefoni a disco, le radio, ci farebbero pensare a un tempo passato, il film di Jarmusch, le notizie sulla guerra in Ucraina, il turbocapitalismo che sfrutta i lavoratori e li licenzia se prendono per sé prodotti scaduti, fanno sì che ci si rispecchi in un presente mai così deprimente. Eppure ci sono Un amore splendido e la solidarietà tra ultimi che possono salvarci. Grazie Ken e grazie Aki per averci dato speranza. Foglie al vento è stato il vero film di Natale, quello che dovreste vedere tutti per stare meglio.
Per la recensione di The Old Oak rimando al mio pezzo su Point Blank.

9) Asteroid City di Wes Anderson
Double Wes.
Il solito Anderson? Per i detrattori, che ne denunciano la sterile reiterazione di stilemi, sì. Se non fosse per il fatto che lo stesso Wes Anderson contempla in Asteroid City le perplessità di alcuni critici.
Continuo a non capire quest’opera
Non importa. Continua a raccontare la storia
All’uscita di The French Dispatch sostenevo che il regista dei Tenenbaum, consapevole di aver generato emuli, sembrava stanco di essere frainteso quale regista solo di superficie sia dai suoi epigoni che dai critici (anche stavolta), mentre, a essere poco più che pigri, si poteva scorgere sotto la superficie (neanche più sua in esclusiva, visto quanto facilmente viene riprodotta) quel sentore di morte che è qualcosa di più dell’assenza di un tempo. È lutto.
Con Asteroid City, Anderson va oltre, in zona 8 e 1/2 (e sì, non vi meravigliate: anche lì c’era un’astronave), raccontando, proprio come Fellini, un’impasse che è dei personaggi e sua. Tutti girano a vuoto e il regista lo fa, ricorrendo, a mia memoria per la prima volta, a movimenti di macchina circolari, a 360°, che tornano al punto di partenza senza che sia cambiato alcunché (una rappresentazione visiva del “girare a vuoto”). Complementare ad Asteroid City è La meravigliosa storia di Henry Sugar, il corto diretto per Netflix, dove all’impurità baziniana si oppone l’assenza di ogni forma di adattamento. Henry Sugar è teatro e letteratura filmati (durante il dialogo tra Imdad Khan e lo yoga è un attrezzista a spostare il primo da destra a sinistra, la mdp resta ferma) che suona forse come un de profundis per il cinema. Ma se, come cantava Caterina Caselli, “si muore un po’ per poter vivere”, ecco riecheggiare analogamente il “Non puoi svegliarti se non ti addormenti” di Asteroid City.

10) Trenque Lauquen di Laura Citarella
Primo film di El Pampero Cine a essere distribuito in Italia, Trenque Lauquen è una vertigine narrativa come solo, forse, Manoscritto ritrovato a Saragozza. Un continuo rinvio a media diversi (decisamente vintage come la radio, il giornale di carta stampata, la corrispondenza epistolare, il telegiornale) che, proprio in quanto media, mediano una verità sfuggente. Dopo aver appreso da altri (narratori inaffidabili?) i particolari della vicenda di Laura, nell’ultimo blocco narrativo giunge il resoconto oggettivo e silenzioso (dell’autrice Citarella) dei giorni trascorsi dalla protagonista successivamente all’ultima registrazione lasciata a Juliana. Un’immersione panica nella natura, che giunge fino alla sparizione, tracciando quasi un legame con un altro epilogo bellissimo, quello di Il male non esiste di Ryusuke Hamaguchi.

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