I 10 migliori film del 2021

i 10 migliori film del 2021

Un anno anomalo, il 2021. Ancor più del 2020, perché diviso in due tronconi: la prima parte con gli strascichi delle visioni domestiche e su piattaforma e la seconda col ritorno al cinema tra nuovi film e approdi in sala di pellicole postergate. Un anno in cui la polarizzazione tra opposte fazioni si è fatta ancor più esacerbata. Anche sul cinema. Il 2021 è stato un anno di poche opere dal consenso unanime e di molte che hanno spaccato in due le platee, sia quelle degli spettatori che quelle dei critici. Lungi dal voler scendere in questo feroce agone, noi cerchiamo, come sempre, di analizzare i motivi per i quali ci sembra che in questa playlist (parziale come lo sono tutte) confluiscano le visioni più interessanti dell’anno che sta per scadere. 

"Titane" di Julia Ducournau

1 – Titane di Julia Ducournau


Donne e motori. Donne motori. Capire perché Titane sia stato respinto, schernito, sbeffeggiato, è facile. Julia Ducournau si schiera lì, sul limite sottile che c’è tra ridicolo e sublime. E, a seconda della prospettiva spettatoriale, il film è collocabile su un lato o sull’altro. Proviamo a spiegare la nostra, di prospettiva. Quello della Ducornau aspira a essere un corpus cinema del futuro, un corpus che è figlio di, ovviamente, ma vuole distruggere genere, generazione e genitura. Innanzitutto uccidendo un possibile padre, Bertrand Bonello, e poi ibridando corpus cinematografici e corpi che vanno da Catherine Tramell (il fermacapelli come il rompighiaccio di Basic Instinct) ad Alex Murphy di Verhoeven passando per la nuova carne di Cronenberg. Quello che colpisce di Titane è forse l’essere concepito come nuova cosmogonia che origina da una sostanziale ribellione a quella che è diventata una società sintetica e virtuale. Alexia diventa Adrien, le cui fattezze da adulto vengono mostrate in TV attraverso software di ageing, intervenendo materialmente sul proprio corpo. Così come fa Vincent che a Photoshop preferisce i cari vecchi steroidi. Questi corpi hanno bisogno di modificarsi non virtualmente per sentirsi vivi. Hanno bisogno di dare o provare dolore. Penetrare (le morti sono piccoli orgasmi, la prima vittima eiacula dalla bocca) o farsi penetrare da materiale inerte per dargli vita. Body horror o body art alla Orlan? Non c’è gender fluid in Titane, ma trans gender, transgenere che va oltre quello delle sorelle Wachowski, perché oppone al codice binario di Matrix, quello non binario della pansessualità. L’alba del nuovo mondo, come in 2001, è un bambino. Un bambino con la colonna vertebrale in titanio. Mentre le scimmie del vecchio mondo danzano attorno ai totem meccanici, la società del futuro sarà, più che fluida, ibrida, cyberpunk. Né maschi né femmine, né umani né macchine, i próteroi theoí saranno tutto. Saranno figli senza esserlo o padri senza esserlo. E non fregherà niente a nessuno. Perché nessuno li potrà giudicare.


"The French Dispatch" di Wes Anderson

2 – The French Dispatch di Wes Anderson

Irma la dolce. Durante la visione di The French Dispatch si pensa costantemente a Irma la dolce di Billy Wilder. Un film frainteso, come forse lo è questo di Wes Anderson. Anche Wilder, al di là del tema, ricorrente nel suo cinema, della maschera, rifletteva lì sulla confusione tra cinema e realtà. In una Francia fintissima come quella dei film di Minnelli (e come quella di Wes Anderson), Lord X, una delle identità assunte da Nestor, prende ispirazione per la sua biografia, falsa, da veri film (Il ponte sul fiume Kwai, Gunga Din, I lancieri del Bengala). E alla fine Nestor sarà accusato di aver ucciso Lord X ovvero sé stesso. Wes Anderson fa lo stesso. The French Dispatch è una Wunderkammer ardente del suo immaginario e forse anche del suo cinema. Perché Anderson sa bene che, dopo anni alla ricerca di un padre assente, ora è lui ad aver figliato e così, come nel film si dà alle stampe un ultimo numero del giornale in onore del suo fondatore, Wes Anderson, forse, realizza il suo epitaffio (la cittadina si chiama Ennui sur blasè ovvero “noia riguardo allo snob”, Anderson è un blasè) passando in rassegna, come al solito tassonomicamente, le sue ossessioni (Tati, Hergé, il Carné di Peccatori in blue jeans e il Godard di Masculin, féminin). O forse dichiara morto un cinema d’autore fatto di ossessioni visto che ora le ossessioni sono alla portata di tutti. Ci aspetta un nuovo Wes Anderson? Chi lo sa? Quel che è certo è che lui sembra stanco di essere frainteso quale regista solo di superficie sia dai suoi epigoni, sia dai critici (anche stavolta), mentre, a essere poco più che pigri, si scorgerebbe sotto la superficie (neanche più sua in esclusiva, visto quanto facilmente viene riprodotta) quel sentore di morte che è qualcosa di più dell’assenza di un tempo. È lutto.


"Fortuna" di Nicolangelo Gelormini

3 – Fortuna di Nicolangelo Gelormini

Un debutto che è una conferma delle attese. Perché Nicolangelo Gelormini dimostra di non lasciare nulla al caso. Le sue inquadrature disegnano un mondo filmico e profilmico che corrobora quello della pagina scritta (da lui e dal docente di sceneggiatura di Pigrecoemme, Massimiliano Virgilio). Gelormini, a uno spettatore disattento, può apparire manierista, ma si tratta di padronanza. Non c’è niente di gratuito in Fortuna, neanche il formato dell’immagine che cambia, ormai un vezzo svuotato di molti registi. Un mondo duplice, la realtà e la fuga dalla realtà, o forse più semplicemente la catarsi della finzione. In fondo il cinema ci permette di proiettarci e proiettare sullo schermo le nostre paure, che siamo autori o spettatori. Il cinema è un sogno, tanto più se la realtà è un incubo. In cui perdersi. In cui la catabasi si trasformi in anabasi, in ascensione.


Freaks Out - Locandina

4 – Freaks Out di Gabriele Mainetti

Piaccia o meno, Mainetti e Guaglianone, con Lo chiamavano Jeeg Robot hanno cambiato le coordinate del cinema italiano successivo. Stavolta alzano ancora di più il tiro, pur rimanendo legati a un’idea di cinema che è profondamente italiana. Perché i Freaks Out (of the Circus) non sono gli X-Men, ma sono i “mostri” della commedia all’italiana. Sono “quattro di noi”, sono i mostri di Dino Risi, sono La donna scimmia di Marco Ferreri, sono L’armata Brancaleone di soliti ignoti di Mario Monicelli per i quali, però, la pasta e fagioli non è un surrogato poco consolatorio del mancato furto. Qui salame e caciotta sono il premio per aver ucciso una moltitudine di nazisti.
Per un’analisi più approfondita rimandiamo alla recensione sul blog.


"Ariaferma" di Leonardo Di Costanzo

5 – Ariaferma di Leonardo Di Costanzo

Pur senza arrivare, come Fofi sulle pagine dell’Internazionale, a vederci un manifesto socialista, ci sembra che la terza regia di finzione di Di Costanzo (già finito nella nostra playlist di fine anno nel 2017 con L’intrusa) riesca a mantenersi in equilibrio tra carne (tutta la carne, anche quella per la genovese) e spirito, materialità e rarefazione, fisica e metafisica. Ariaferma è un film “buzzatiano” il cui oggetto principale del racconto è l’umanesimo, quel senso di appartenenza a uno stesso “genere” che le convenzioni e i ruoli sociali spesso fanno dimenticare distinguendoci in buoni e cattivi e in cattivi e più cattivi (Arzano). In questo senso può apparire posticcio il secondo finale in cui si palesa un’agnizione non necessaria. O forse sì, per continuare a mettere in relazione racconto morale e feuilleton.


"Ultima notte a Soho" di Edgar Wright

6 – Ultima notte a Soho di Edgar Wright

Appare alquanto bizzarro che quanti si sono spellati le mani per quella cosuccia di Baby Driver abbiano fatto le pulci a Ultima notte a Soho che, invece, al di là dei manierismi e delle citazioni (che sono la cifra stilistica di Wright, no? e che troverete puntualmente elencate in altre analisi), pare fare un discorso sensato e lucido sulle trappole della nostalgia del passato. La celebrata Swingin’ London era un inferno patriarcale in cui i sogni di una ragazza potevano essere distrutti e annullati. Ultima notte a Soho è un racconto di fantasmi: fantasmi di un’epoca e fantasmi di un cinema (e di una musica e di una moda) che non c’è più, ma che, forse, agiva da tranquillante perché copriva, con una patina di coolness, il marcio che c’era. Purtroppo a quei fantasmi, tra realizzazione e uscita del film, si sono aggiunte anche Diana Rigg (cui il film è dedicato) e Margaret Nolan.


"Drive my Car" di Ryusuke Hamaguchi

7 – Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi

Che vuoi farci, bisogna vivere! Noi, zio Vanja, comunque vivremo. Vivremo una lunga, lunga serie di giorni, di lunghe serate; sopporteremo con pazienza le prove che il destino ci manderà; ci affaticheremo per gli altri, e adesso e da vecchi, senza conoscere tregua e, quando verrà la nostra ora, moriremo con mansuetudine, e di là, dalla tomba diremo che abbiamo sofferto, che abbiamo pianto, che sentivamo tanta amarezza, e Dio avrà pietà di noi, e io e te, caro zio, vedremo una vita luminosa, stupenda, meravigliosa, ne saremo contenti e ci volteremo a guardare le nostre disgrazie di oggi con tenerezza, con un sorriso… e riposeremo“. Il monologo finale di Sonja nel dramma di Anton Čechov viene recitato col linguaggio dei segni da un’attrice muta. È la catarsi definitiva per Kafuku, abituato a recitare il ruolo di Vanja interagendo con la voce della moglie, Oto, deceduta due anni prima. Un corpo senza voce che prende il posto di una voce senza corpo affinché il protagonista, e forse anche l’autista con la quale ha stretto un legame molto forte, riesca ad andare avanti. Perché probabilmente, per superare un lutto, occorre abbandonare le “cose” che lo evocano: una macchina, una moglie, una voce. Ryūsuke Hamaguchi dilata un racconto breve di Haruki Murakami, aggiungendo un lunghissimo prologo (i titoli di testa scorrono dopo 40 minuti) laddove la novella inizia in medias res col protagonista già vedovo. Ma non è un esercizio gratuito, anzi, il tempo e lo spazio che si prende serve a farci empatizzare maggiormente con la storia e con i personaggi. Drive My Car dura tre ore, ma non ve ne accorgerete perché Hamaguchi ha evidentemente un dono: quello di far vivere, e non solo guardare, un film.


"First Cow" di Kelly Reichardt

8 – First Cow di Kelly Reichardt

Un western in 4:3 è una dichiarazione di intenti, una inequivocabile manifestazione di poetica. «Non volevo riprendere grandi panorami, ma persone con piccole vite». Non c’è epos, ma piccole storie che ne hanno fatto parte. Quando nel prologo vengono scoperti i due scheletri, un po’ si pensa (magari l’ha fatto solo chi scrive) a La grande guerra e, sbagliato o meno che sia, il tratteggio dei personaggi fa pensare alla scrittura monicelliana. In quella che è letteralmente una riduzione (dal libro di Jonathan Raymond, The Half-Life, che si dipana in un arco di tempo e di spazio, dall’Oregon alla Cina, più ampio), Kelly Reichardt gira quasi una commedia (picaresca) all’italiana, ma come farebbe Kaurismaki, concludendo con echi pasoliniani (sembra di sentirli, Cookie e King Lu, distendersi e dire “aaah, mo’ sto bene“). Splendidi i protagonisti John Magaro e Orion Lee. Ultima apparizione dell’altmaniano René Auberjonois.


"West Side Story" di Steven Spielberg

9 – West Side Story di Steven Spielberg

La plongée aerea che nella versione del 1961 mostrava New York, e dopo che in Wall-E faceva lo stesso con cumuli di rifiuti, nel West Side Story di Spielberg inquadra macerie. Il musical di Robert Wise e Jerome Robbins rompeva le convenzioni uscendo dagli studi e piombando on location (anticipato da Un giorno a New York), portando la realtà nel genere più artefatto di Hollywood. Spielberg, per ricostruire quel mondo, deve necessariamente distruggerlo (se non distruggi, non puoi ricostruire) e la sua è una New York devastata dalla gentrificazione. Come sempre, nel cinema del regista di E.T., ciò che risalta è l’assenza di una patria (gli Sharks come i protagonisti di Munich o di The Terminal) e di padri (l’unica figura genitoriale è Valentina, vedova di Doc, il proprietario della drogheria nella versione del 1961, interpretata da Rita Moreno che, di quella versione, è l’unica superstite). L’America non può e non sa essere (madre) patria né riesce ad avere un buon pater familias che la guidi. Tematiche che Spielberg non introduce ex novo perché già presenti nell’opera firmata da Bernstein e Sondheim, semplicemente le (ri)spolvera, le palesa (come fa col personaggio di Anybody che è qui un trans a tutti gli effetti, particolare cui nel ’61 si poteva solo alludere; o con l’aggressione ad Anita per la quale la Moreno, ovvero colei che l’ha subita 60 anni fa, parla apertamente di “stupro”). Il musical adorato dalla madre, il cui vinile circolava in casa da quando il piccolo Steven aveva dieci anni, e dedicato al padre, venuto a mancare nell’agosto del 2020. Un’opera, quindi, con cui Spielberg rende omaggio alla rivoluzione che West Side Story rappresentò, rinnovandone la portata politica (che nell’attualità persistente della tematica razziale non può che far cadere le braccia) ed esaltandone il fatalismo, sia separando Tony e Maria con grate e inferriate nell’esecuzione di Tonight, sia ambientando In America di giorno e lungo le strade (non sul terrazzo di notte) sì da rimarcarne l’anomalia rispetto alle tante ombre che si stagliano lungo il film, sia, soprattutto, affidando Somewhere all’anziana Valentina (invece che a Tony e Maria) e trasformandola da canzone di speranza in brano di rimpianto (per non parlare del carrello ascensore finale il quale, come in Dancer in the Dark di Lars Von Trier, rovescia le coordinate dei musical sottolineando la morte più che la vita), ma anche colla quale finalmente si può permettere di manifestare tutto il suo amore per i genitori.


"Re granchio" di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis

10 – Re granchio di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis

«La gente racconta quello che sa. Solamente, se racconta dieci parole, dopo vie’ tramandato a quindici parole, a cinquanta parole. Alla fine, c’è un po’ inventato e un po’ vero». Vale anche per le immagini, no? Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis restituiscono loro, alle immagini (che i commenti spacciati per analisi vogliono sempre più apodittiche), l’indeterminazione tipica del racconto orale. Indeterminazione tra realtà e finzione, tra generi (western, avventura, favola) e autori di riferimento (Olmi, i Taviani, Alice Rohrwacher, dal cui Le meraviglie arriva Maria Alexandra Lungu, Herzog, Leone, il Von Stroheim di Greed), tra archi temporali. Un’opera visivamente accecante, con un senso panico del paesaggio ormai perduto nel nostro cinema (quanti campi lunghi e lunghissimi ci è dato vedere nei film italiani?) e un’idea di regia forte e coraggiosa.

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