I 10 migliori film del 2018

Come ogni anno, da almeno un lustro, anche Pigrecoemme pubblica la propria playlist dei migliori film dell’anno. Al pari del Confiteor cristiano, anche Rosario Gallone potrebbe dire “ho peccato in pensieri, parole, opere e omissioni“, è scritto nelle regole di questo gioco che non può prescindere dalla parzialità sia di giudizio sia di visioni che non potranno mai comprendere tutti i film distribuiti. Buona lettura.

1 – The Other Side of the Wind di Orson Welles

The Other Side of the Wind è un film del 2018 che, però, Orson Welles girò dal 1970 al 1976. Perché Welles era un negromante. Perché sapeva cosa sarebbe stato il cinema. Proiettato a casa. E, a volerla dire tutta, lo sapeva da Quarto potere di cui questo è quasi un remake epigrafico. Jake Hannaford è Charles Foster Kane e il finto cinegiornale con cui si apriva Citizen Kane diventa found footage totale con occhi delle cineprese che coprono interamente un evento come fossero smartphone di oggi. F for Fake, la verità attraverso la finzione, la vertigine della messa in abisso, Bogdanovich nei panni di un personaggio di finzione ispirato a Bogdanovich e lo stesso vale per Oja Kodar. Un Home Invasion in cui ricorre il termine Madre (riferito alla padrona di casa e a Dio che vien detto femmina) e pensi ad Aronofsky. Un film nel film che è scherzo antonioniano e in alcuni momenti Signora di Shanghai psichedelico. Un drive in che condensa prima e ultima scena di 8 e 1/2. Un’opera così densa che non può che generare enunciazione infinita di suggestioni e ancora e ancora per anni a venire.

2 – Zan (Killingdi Shin’ya Tsukamoto

Tsukamoto è vivo e lotta con noi. All’arma bianca. Non pensiate che con la vecchiaia lo spirito iconoclasta del regista di Tetsuo si sia dissolto. Anzi, qui prende il wuxiapian e lo sfronda di ogni orpello (cavi e coreografie aeree alla Woo-ping Yuen). Macchina a mano e duelli cruenti. Se nel suo capolavoro cyberpunk l’uomo-macchina finiva con una trivella al posto del fallo, qui l’allusione sessuale è data (e non la inventa lui) dalla spada. L’incapacità di uccidere di Mokunishin fa il paio con la sua impotenza (avete mai visto un samurai masturbarsi?). E il viaggio dell’eroe non si compie perché si resta sempre bloccati in quel villaggio, a girare a vuoto. 250 anni di pace hanno fiaccato gli uomini, tanto che Sawamura (lo stesso Tsukamoto) recluta ronin per combattere. Ma quanto il vecchio è una macchina sanguinaria tanto il giovane è un pacifista (preso per vigliacco) che sa bene che sangue chiama sangue in una spirale senza fine.
Tsukamoto è vivo e lotta con noi. E gira da dio come sempre.

3 – Phantom Thread di Paul Thomas Anderson

Phantom Thread non amplia la trilogia precedente trasformandola in tetralogia. Phantom Thread rappresenta un nuovo inizio. Quello in cui Anderson pensa al cinema europeo, al David Lean di Breve incontro e di Tempo d’estate, a Visconti, al Rossellini di Viaggio in Italia, ma anche forse al Jack Clayton di The Innocents, vicenda di passione amorosa e fantasmi tratta da Giro di vite di Henry James. Un approfondimento critico potete trovarlo qui.

4 – Sono tornato di Luca Miniero

Sono tornato è una commedia, ma non si percepisce la distanza tipica del genere, siamo coinvolti in prima persona (la stessa del titolo, mentre l’originale, libro e film, è in terza persona e la modifica italiana non è certo casuale) e non ne usciamo bene. E poi di commedia si tratta fino a un certo punto. Il Mussolini Show va in onda, audience altissima, gli autori festeggiano parafrasando Faccetta nera. Tranne un’autrice che ricorda chi fosse Mussolini, quali crimini avesse commesso. Di lì in poi, una discesa nell’orrore che passa per un’ospitata da Cattelan, da Mentana e che non fa più ridere, mette i brividi. Mussolini, come sostiene Massimiliano Martiradonna, sarà pure un pagliaccio, ma è Pennywise che ti mette di fronte alle tue paure. E, dopo una stoccata genialmente cattiva agli animalisti, arriva il confronto con l’anziana malata di Alzheimer che ricorda il rastrellamento (e spiegatemi come si possa parlare, di fronte a questa scena, di revisionismo: siete usciti prima dalla sala?) e l’epilogo diverso in parte (un film in Germania, una trasmissione stile De Filippi ovvero il locus principe del revisionismo quello sì). Frank Matano funziona quando fa Frank Matano, è un disastro quando costretto a recitare, ma è davvero un neo. Sono tornato è una radiografia di quelle che ti fanno scoprire che hai il cancro. E non c’è niente da ridere.

5 – Un sogno chiamato Florida di Sean Baker

Over the Rainbow c’è un tesoro, ma anche un folletto che vuole farti male. Over the Rainbow c’è l’infanzia che trasforma in gioco ed avventura fantastica anche le miserie del paesaggio e della vita, le fa convivere, come il tesoro e il folletto. Over the Rainbow c’è la Florida in cui convivono miseria e avventura fantastica. E quando cresci e la vita ti appare per quella che è e piangi allora non resta che rifugiarti nell’infanzia, attraversare la strada ed entrare a Disneyland, ingannarti, certo, ma devi pur staccare dalla vita che può essere molto brutta. The Florida Project di Sean Baker è un film bellissimo, c’è poco da aggiungere.

6 – L’isola dei cani di Wes Anderson

Chi siamo? e cosa vogliamo essere?“. Ci ha messo nove film Wes Anderson a capire che il sostrato politico del suo nucleo tematico di sempre andava, forse, reso più esplicito. Perché noi spettatori, di superficie o di profondità, siamo un po’ ottusi, diciamoci la verità, e se un’opera non parla di massimi sistemi facciamo fatica a riscontrarli in un racconto apparentemente centrato sulla formazione dell’individuo. Ma il bildungsroman non è sempre stato questo? Certo, la risposta alla domanda “Chi siamo? e chi vogliamo essere?” necessita di modelli di riferimento, padri che nella filmografia andersoniana non sono irreprensibili e il sindaco Kobayashi non è da meno. Ma ecco, più chiaro di quanto fosse stato finora, il messaggio: un individuo migliore fa una comunità migliore. E i valori che fanno, di un individuo, un individuo migliore non possono che essere la lealtà, l’amore, l’amicizia. Il 2018 verrà ricordato come l’anno in cui un vecchio attore ci ha ricordato che “La tenerezza è rivoluzionaria” ed un quasi cinquantenne regista texano ha ribadito che, spesso, essere un (under)dog non esima dal prendersi delle responsabilità. Dovremmo impararlo un po’ tutti.

7 – Les garçons sauvages di Bertrand Mandico

In Francia è stato distribuito a febbraio del 2018, in Italia è stato disponibile per trenta giorni sulla piattaforma MUBI. I Cahiers du Cinéma lo hanno incoronato miglior film dell’anno. Les garçons sauvages, esordio alla regia di un lungometraggio di Bertrand Mandico, è un’esperienza visiva di potenza rara. Mandico non sfugge al mantra postmoderno del mescolare alto e basso (da Il signore delle mosche ad Arancia meccanica con echi di Buñuel, Russ Meyer, Sci Fi di serie B, Fassbinder, Lynch, Jodorowski, L’Atalante, senza contare Lo strano vizio della signora Wardh in colonna sonora) per raccontare una vicenda, sì simbolica ma estremamente dentro al nostro tempo, di transito di genere: dal maschile al femminile; da violenza e sopraffazione a riconquista di un corpo, di un’identità, di un mondo.

8 – Lazzaro felice di Alice Rohrwacher

Come Hiroo Onoda, il giapponese che per trent’anni credette che la II guerra mondiale non fosse finita, i protagonisti di Lazzaro felice ignorano che la mezzadria non esista più. Ma quando, da quel mondo primitivo, saranno scaraventati nella modernità, si accorgeranno che il “ci sono i diritti, i contratti” riferito loro dal carabiniere è un grande inganno così come verrà definito anche lo scandalo che colpisce la Marchesa Alfonsina de Luna. Nicola, il suo braccio destro, in città venderà all’asta il lavoro (al ribasso) e i mezzadri vivranno nella versione industriale delle baracche fatiscenti dell’Inviolata (una cisterna vuota). Ad attraversare immutato (nell’animo e nell’anagrafe) epoche e luoghi è Lazzaro, un po’ Candide un po’ Totò il buono, ma alla fine anche Bran Stark di Game of Thrones. Non è meno postmoderna di altri, Alice Rohrwacher, ma i suoi riferimenti sono Olmi, Zavattini, Sergio Citti (quello di Il minestrone e I magi randagi), il Comencini di Lo scopone scientifico e lo Scola di Dramma della gelosia e Brutti, sporchi e cattivi. Lazzaro felice è un’apologia della bontà (non del buonismo) quale unico antidoto al cinismo e alla cattiveria del mondo. La bontà che trova il cibo tra le sterpaglie, che non ha paura di sembrare una parodia mentre cerca l’afflato (il fiato, magico, che scompiglia i capelli e trascina via la musica) della poesia.

9 – Ore 15:17 – Attacco al treno di Clint Eastwood

Alla veneranda età di 88 anni, Clint Eastwood ci regala la più lucida analisi di cosa significhi oggi l’immagine dell’eroe. Una riflessione non nuova, che ricorre anche in Gli spietati, in Flags of Our Fathers e, non ultimi, in American SniperSully di cui, immaginandocela come trilogia, questo Ore 15:17 – Attacco al treno può apparire quale capitolo conclusivo. A differenza di Liberty Valance, di Billy the Kid in Furia selvaggia o di Bob l’inglese in Gli spietati che hanno bisogno di chi, giornalista, costruisca la loro leggenda, nell’era del selfie stick, tutti noi siamo artefici della nostra mitologia. E allora cosa fa Eastwood? fa interpretare ai protagonisti stessi del “fatto realmente accaduto” (Spencer Stone, Alek Skarlatos e Anthony Sadler) sé stessi (e il poster di Full Metal Jacket nella stanza di uno dei tre è un chiaro riferimento al film in cui R. Lee Ermey, marine dal 1961 al 1972, fu chiamato a rifare se stesso in qualità di addestratore di reclute), raggiungendo il massimo del corto circuito, tra realtà e sua rappresentazione, nella sequenza della premiazione con la Legion d’Onore, con i campi di Hollande di repertorio raccordati ai controcampi con la controfigura dell’allora presidente francese di quinta. Solo i più acuti osservatori del presente hanno ben chiaro che la realtà al cinema è pur sempre ri-produzione della stessa. E tra questi c’è sicuramente Clint Eastwood.

10 – A Beautiful Day di Lynne Ramsay

A Beautiful Day di Lynne Ramsay (titolo originale You Were Never Really Here) è un film di una potenza incredibile fin dall’incipit (il migliore dell’anno). In Francia lo hanno definito il Taxi Driver del 21mo secolo. Se amate i paragoni, metteteci anche un Gloria di Cassavetes più crudo e nichilista, ma con un raggio di sole rappresentato dalla battuta finale eponima del titolo internazionale.

Commenta questo post

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.