Gli altri 10 migliori film del 2019

sorry_to_bother_you

Quella che state per leggere non è una playlist dei posti dall’11 al 20, no. Abbiamo pensato che non vi sarebbe andato di leggere l’ennesima playlist con Scorsese, Joker, Dolor y Gloria, Parasite. Quella che state per leggere è la playlist dei migliori film del 2019 in una dimensione alternativa in cui The Irishman e gli altri non sono usciti (e forse neanche girati). Buona lettura.

1 – Captive State di Rupert Wyatt

E mentre ci si è sperticati in lodi per il contenuto politico piuttosto esplicito di Noi, è passato sotto silenzio un filmone potentissimo come Captive State di Rupert Wyatt che si concede il lusso di citare Melville (L’armata degli eroi) diegeticamente, di costruire una sequenza centrale di attentato come il Frankenheimer dei tempi d’oro, di mantenere alta la tensione e la suspense e contemporaneamente farsi latore di un messaggio rivoluzionario per una produzione a stelle e strisce. Gli alieni invasori qui non distruggono, ma dicono di portare la democrazia e il benessere e si fanno chiamare Legislatori (vi dice qualcosa?) mentre i terroristi non sono cattivoni folli, ma combattenti per la libertà. Applause.
Captive State, a dispetto dello scarso successo di pubblico, probabilmente finirà nei libri di storia di domani per aver saputo raccontare meglio di ogni altro gli anni ’10 di questo secolo. Oppure sparirà, come le memorie degli smartphone che, analogamente a ogni cosa riguardante il passato, possono essere pericolose. Perché il potere non vuole che si ricordi. La memoria è rivoluzionaria.

2 – Sorry to Bother You di Boots Riley

Sorry to Bother You è blaxploitation incazzata. È Putney Swope, The Watermelon Man e Sweet Sweetback’s Baadasssss Song frullati insieme, Melvin Van Peebles che incontra il miglior Spike Lee. L’opera prima di Boots Riley ri-prende la Trinità dello Spacciatore, del Pappa e della Pantera (come scrive Darius James nel suo imprescindibile That’s Blaxploitation!: Roots of the Baadasssss ‘Tude – Rated X by an All-Whyte Jury) e ne fa la protagonista (triplice) del suo film. Cassius Green, aspirante Pantera (come la sua donna Detroit), diventa Pimp capitalista e Pusher di Schiavitù. Per poi sfociare in Collodi (Worryfree come Il paese dei balocchi).
Mentre l’Academy si propagandava ipocritamente progressista, veicolando una rappresentazione del corpo nero normalizzata (e non parlo solo di Green Book), dopo l’Oscar a Get Out dell’anno passato, l’anarchico (per tema e forma) Sorry to Bother You, del tutto dimenticato dalla giuria, scava a fondo nelle ragioni del razzismo: neri, operai, proletari, schiavi, tutti accomunati (e qui sembra scorgere quasi l’intuizione pasoliniana) dal miraggio di una vita borghese “worryfree” che, in realtà, ci trasforma in cavalli in un recinto.

3 – Benvenuti a Marwen di Robert Zemeckis

Lo odiano perché è americano?
Perché è diverso

Perché la seconda guerra mondiale?
Almeno lì eravamo i buoni

Basterebbero questi due scambi di battute a dire dell’importanza dell’ultimo film di Robert Zemeckis. Ma il destino degli sperimentatori quando divengono classici, forse, è rimanere incompresi. E così anche Benvenuti a Marwen, come il precedente Allied (che “trasloca” in questo l’idea di una guerra messa in scena, di un immaginario da war movie hollywoodiano) è stato attaccato pretestuosamente perché, siccome parte da una storia vera (quella di Mark Hogancamp), di quella non approfondirebbe alcune tematiche: la dipendenza, la sanità pubblica inesistente. Ma Zemeckis, in fondo, parla sempre della stessa cosa: della fantasia, dell’atto creativo che migliora la realtà, la quale, non lo nasconde mai, è sempre brutta. Ecco perché, più che a Forrest Gump (come banalmente ripetuto in serie da pigri recensori), Mark va ricollegato a Chuck Noland, il protagonista di Cast Away (e il villaggio di Marwen ha echi hitchcockiani come li aveva Le verità nascoste, il film che Zemeckis girò durante una pausa dalle riprese di Cast Away, e anche qui c’è una strega) . Come lui, combatte la solitudine “amando” oggetti cui conferisce un’anima. E non è forse, questa, “arte”?

4 – Vice di Adam McKay

La Storia ha condannato i gerarchi che si sono macchiati di veri e propri stermini (Ceausescu, tanto per fare un nome), ma ha dimenticato quanti morti (diretti e indiretti) abbia fatto l’azione politica di Dick Cheney, burattinaio dietro la marionetta George W. Bush. Un vero genocidio rimasto impunito.
Fortuna che, a ricordarcelo, c’è Adam McKay il quale si candida quasi ad essere il nuovo Oliver Stone nella ricostruzione dei lati oscuri dell’America. Ma con molta più ironia e meno testosterone (date uno sguardo alla geniale sequenza post titoli di coda). Chi lo avrebbe detto che il regista di Anchorman (che, poi, un po’ politico lo era già) o Ricky Bobby, sarebbe diventato uno dei più impegnati registi degli anni ’10? Di solito quando stelle del demenziale passano al “cinema serio” lo fanno in modo tradizionale e anche palloso. McKay è riuscito a trasferire l’irriverenza del Saturday Night Live, nel quale si è fatto le ossa, nel racconto di pagine fondamentali della storia americana. Come in La grande scommessa, anche in Vice abbiamo diverse soluzioni che rasentano il genio: dai finti titoli di coda alla voce narrante, al dialogo in versi tra Dick e la moglie, passando per la scena del ristorante con Alfred Molina ad elencare il menu fatto di strategie per fare “il cazzo che vi pare“. La risata si strozza in gola anche perché McKay sa bene che il pubblico alla fine preferisce il sequel di Fast & Furious, altrimenti non avrebbero Trump. E noi non avremmo…vabbe’, avete capito.

5 – Pallottole in libertà di Pierre Salvadori

I titoli di testa scorrono su una scena action che si rivela essere una favola della buonanotte. La Tautou chiede al suo uomo tornato dalla galera di ripetere il rientro tre volte come se fossero tre ciak. Un colpevole che in realtà è innocente, un eroe che in realtà è un corrotto, una poliziotta che si finge prostituta. “En liberté” (titolo originale) Pierre Salvadori passa dal polar alla commedia, alla rom com. La vita è una finzione. Forse l’amore no. Forse.

6 – Stanlio e Ollio di Jon S. Baird

Le cose che hai detto l’altra sera, le pensavi davvero?
No
E tu?
No
Bene
Stan & Ollie è semplicemente la più grande storia d’amore mai raccontata. E probabilmente Steve Coogan e John C.Reilly avrebbero meritato il primo Oscar di coppia assegnato dall’Academy.

7 – Selfie di Agostino Ferrente

Selfie di Agostino Ferrente cerca la assoluta obiettività e, nello stesso tempo, ne denuncia l’irraggiungibilità. Il cinema è stato, è e resterà una forma di rappresentazione. Rappresentazione che è trasversale alla dicotomia documentario/finzione. Solo la pigrizia della critica tassonomica può definire Selfie cinema del reale (e come documnetario concorre al David di Donatello), ammesso che un cinema del reale sia possibile. Il reale non esiste, forse neanche a occhio nudo, figuriamoci se filtrato dall’occhio di una camera, fosse anche quella del telefonino. Pietro e Alessandro guardano in macchina e rompono l’illusione di realtà del cinema classico, ma contemporaneamente sono i protagonisti di un buddy movie che del genere rispetta i codici: l’amicizia, il tradimento, la solitudine. Ma Pietro e Alessandro sono così o si autorappresentano? Ormai nessuno più è impreparato davanti a una camera perché ognuno, il sogno di Zavattini, ha la sua. Si veda il momento in cui Pietro cammina e alla destra dell’inquadratura vediamo un gruppo di ragazzi comparire uno alla volta e a turno portano la sigaretta alla bocca come in una coreografia di Bob Fosse per Sweet Charity. Pietro e Alessandro sono consapevoli che rappresentano, mettono in scena e discutono su cosa sia giusto far vedere. Gli establishing shot delle telecamere di sorveglianza servono a contestualizzare perché il punto di vista è sempre parziale. Puoi fare un’inquadratura dal basso verso l’alto con bicchieri di mojito e cielo e far pensare che si tratti di una spiaggia, ma se sposti il parallasse scopri che si è fuori a un negozio di arredo da giardino. Il cinema è un trompe l’oeil anche se quell’oeil, a volte, raggiunto dalla realtà fuori campo, piange.

8 – Border/Creature di confine di Ali Abbasi

In Lasciami entrare, trasposto in pellicola da Tomas Alfredson, ricordo che Corrado Morra sottolineava come John Ajvide Lindqvist facesse del sesso della vampira, impudicamente mostrato nel film, quasi la cicatrice di un’evirazione. Anche in Græns – Border che Ali Abbasi ha tratto da un altro racconto dello stesso autore, il genere (sessuale e/o animale) non è così nettamente definito. Il confine non è solo geografico, ma anche tra realtà e mito, tra umano e disumano. E in nessuno di questi casi si tratta di linea di demarcazione chiara e inequivocabile.

9 – La rivincita delle sfigate di Olivia Wilde

Booksmart sta per “secchione”. In Italia diventa La rivincita delle sfigate. E sì perché chi studia è sfigato. Il bello dell’opera prima di Olivia Wilde è, invece, proprio nel non disegnare nessun personaggio come “sfigato”: non Amy e Molly, molto sicure di sé (Amy ha fatto coming out due anni prima e la sua omosessualità non è certo il tema del film), non il riccone che pensa di poter comprare le amicizie, non il figo che è meno stupido del previsto. Insomma, questa generazione è migliore di quella di cui è figlia, non c’è bullismo, c’è amicizia, magari qualche innocuo pregiudizio che ci mette una notte a cadere. Il tempo di una chiacchierata. Perché è la non conoscenza la causa del pregiudizio. Per i titolisti italiani le protagoniste sono sfigate e questo spiega perché il coming of age sia un racconto che non sappiamo fare. In Italia ci si pone sempre in cattedra, quella cattedra da cui Serra definisce i giovani “Gli sdraiati“, quella cattedra da cui si giudica senza mettersi nei panni di…quella cattedra che, come tutte le cattedre dietro le quali siedono insegnanti che non si sforzano di comprendere, va a braccetto con la gerontocrazia imperante in ogni ambito.
Booksmart rappresenta un passaggio di testimone. Da Apatow (che produsse SuXBad con Jonah Hill, di cui Beanie Feldstein è sorella) a Will Ferrell e Adam McKay che del Frat Pack sono stati tra i membri di rilievo e ora producono questa commedia scritta, ricordiamolo, da Emily Halpern, Sarah Haskins, Susanna Fogel, Katie Silberman.

10 – Shéhérazade di Jean-Bernard Marlin

Da maggio 2019 su Netflix c’è Shéhérazade, opera prima di Jean-Bernard Marlin, in concorso alla Semaine de la Critique di Cannes 2018. Il regista ha dichiaratamente parlato di Accattone e Mamma Roma quali suoi modelli di riferimento, ma è facile riconoscervi anche il Kechiche di La schivata. I due protagonisti, non professionisti, brillano di luce propria. E la luce, in questo film, dei fari, dei lampioni, di un coniglietto luminoso da tenere sul letto, tinge di favola una storia cruda come quelle autentiche da cui è partito il regista.

Commenta questo post

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.