Freaks Out di Gabriele Mainetti – La recensione

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C’è in rete un video essay di kogonada, What is neorealism?, in cui l’autore, confrontando la versione italiana di Stazione Termini di Vittorio De Sica con quella montata a Hollywood da David O. Selznick, sottolinea quali siano le caratteristiche più evidenti di uno stile, prima che fenomeno, di così largo successo in tutto il mondo. Excessive, Distraction, Unnecessary Diversion sono le peculiarità che kogonada riconosce al neorealismo: la digressione, la dilatazione del racconto, la tendenza a eccedere. Leggendo le recensioni di Freaks Out si nota la stigmatizzazione, in quelle negative come in quelle positive, proprio di questi aspetti. Si ascrive a Mainetti l’eccesso (di stile e di racconto, ma anche di durata), la tendenza a debordare. In una delle prime scene, quella del rastrellamento cui assistono i protagonisti poco dopo essere stati abbandonati (?) da Israel, abbiamo la possibilità di vedere proprio uno di quegli episodi marginali cui allude kogonada, episodi che non fanno progredire la narrazione (fattore inaccettabile per la fabbrica dei sogni), ma definiscono un contesto, un ambiente, un’atmosfera: una giovane non ebrea finge di essere lei la madre di un neonato mentre la donna (la madre legittima) che lo ha in braccio, e che sta per essere deportata, viene fatta passare per la nutrice, la tata. Così salva il bambino da morte certa, incassando il commosso ringraziamento della sventurata.

Già nel 2016, all’uscita di Lo chiamavano Jeeg Robot, ebbi modo di sostenere che il cinema di Gabriele Mainetti non insegue modelli americani, come quello di Luc Besson, ma li rielabora secondo una sensibilità tutta nostra, facendosi glocal senza snaturarsi. Come il cinema bis italiano che, nella storia, è riuscito a ritagliarsi uno spazio di originalità pur partendo da modelli preesistenti: dallo spaghetti western al poliziottesco passando per il “giallo” all’italiana, il peplum e il gotico.

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Fa piacere quindi oggi leggere Giona A. Nazzaro su Film TV ribadire questo concetto (“C’è voluto tempo prima che si comprendesse che Sergio Leone non era solo quello che copiava Kurosawa o uccideva il western […] Chissà quanto tempo ci vorrà affinché si comprenda che Mainetti è l’ultimo discendente – in ordine cronologico – di un cinema italiano trasversale, d’autore, personale e schiettamente popolare, che ha avuto proprio in Leone prima e Dario Argento poi le sue formulazioni più alte“) perché la differenza, rispetto ai diversi tentativi di rivitalizzare il cinema di genere in Italia (tentativi che, occorre sottolinearlo, hanno avuto una spinta maggiore da Jeeg Robot in poi) è proprio in questa capacità di restare ancorati a una tradizione che è solo nostra. Capacità che è di Gabriele Mainetti alla regia, ma sua e di Nicola Guaglianone alla sceneggiatura. Perché i Freaks Out (of the Circus) non sono gli X-Men, ma sono i “mostri” della commedia all’italiana. Sono “quattro di noi”, sono i mostri di Dino Risi, sono La donna scimmia di Marco Ferreri, sono L’armata Brancaleone di soliti ignoti di Mario Monicelli per i quali, però, la pasta e fagioli non è un surrogato poco consolatorio del mancato furto. Qui salame e caciotta sono il premio per aver ucciso una moltitudine di nazisti.

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E se Mainetti è discendente di quel cinema di cui parla Nazzaro, Nicola Guaglianone, per formazione (è allievo di Leo Benvenuti) e inclinazione, è l’erede di una tradizione che ha sempre guardato ai freaks (si pensi alle gemelle siamesi di Indivisibili) e ha costantemente valorizzato, in virtù di questa attenzione, i cosiddetti caratteristi. E anche questo è un aspetto che troverete in Freaks Out: pensate a “il gobbo” impersonato da Max Mazzotta oppure a Gambaletto, interpretato da Michelangelo Dalisi, personaggi marginali, ma che restano impressi nella memoria dello spettatore. Memoria che Mainetti e Guaglianone sollecitano ripetutamente, spingendo il pubblico a incastrare tessere di puzzle diversi, perché, come noi (“due di noi”), sono stati spettatori di commedia all’italiana, di neorealismo e di cinema americano. I partigiani di Freaks Out, pertanto, sembrano provenire sia da Lizzani (Il gobbo) sia dallo steampunk (o da Mad Max nello scontro finale); il circo è più quello di Fellini (con tanto di motivo musicale, ancora di Mainetti insieme con Michele Braga, che omaggia Nino Rota) che di Tod Browning sicché il rapporto tra Matilde e Fulvio potrebbe ricordare quello tra Gelsomina e Zampanò, con Cencio a fare Il matto.

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Comunque la si metta, e qualunque sia il giudizio finale, nessuno può negare che ci si trovi di fronte a del cinema. E che cosa sia il cinema per gli artefici viene esplicitato nella prima scena: il cinema è meraviglia (l’esibizione di Cencio), divertimento (Mario), spavento (Fulvio), elettricità (Matilde). Cinema a 360 gradi, come quello che Franz vede nella sua allucinazione (con l’etere o nell’etere), cinema che avvolge, immerge. In fondo, l’alter ego di Mainetti e Guaglianone è proprio il personaggio interpretato da Franz Rogowski: un visionario pronto a tutto pur di realizzare la sua visione, finanche a finire nella merda. La follia di chi sa che la sua è una prospettiva unica, è un vortice in cui si viene travolti dal treno della Ciotat e da Il grande dittatore, da Spielberg e da Springtime for Hitler, dai Radiohead e da Bella ciao.

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Tocca ribadirlo, però: Mainetti non è Tarantino né tarantiniano. Freaks Out non è Bastardi senza gloria (fugacemente citato nell’inquadratura basso/alto nella quale sbucano Il gobbo e Gambaletto che scoprono Matilde nel bosco). Gabriele Mainetti è Gabriele Mainetti, perché non imita nessuno. C’è chi sostiene che il film sia troppo lungo, ma gli si possono rimproverare l’eccesso, la distrazione, le digressioni non necessarie? Si può rimproverare a un innamorato tanta attenzione per l’oggetto del suo amore? Roberto Recchioni sostiene che Freaks Out consti di tre atti di cui il primo splendido, il secondo meno, il terzo una maionese impazzita, coraggiosa e divertente. Tre atti, come da manuale di sceneggiatura. Tre atti che, però, sono anche i tre atti dell’idea di cinema di Mainetti (e ce l’ha dal suo esordio): il primo in cui il regista si presenta (è un regista italiano e guarda a una tradizione italiana), il secondo in cui c’è il conflitto (con una tradizione che non ci appartiene) e il terzo in cui avviene la risoluzione e un nuovo equilibrio, un nuovo cinema, un cinema che fonda tradizione italiana e sense of wonder di matrice hollywoodiana (ma con molti meno soldi: provate a chiedere alla Marvel di fare Freaks Out con l’equivalente di 13 milioni di euro). Un nuovo cinema come quello di Sergio Leone e di Dario Argento. Un cinema che fa uscire frastornati. E non è forse questo che chiediamo quando ci immergiamo nel buio di una sala?

6 commenti su “Freaks Out di Gabriele Mainetti – La recensione”

  1. Recensione mervaigliosa: non voglio aggiungere frasi di senso compiuto per lodare il film, oltre una serie di superlativi assoluti sottintesi, per non inquinare nemmeno con un capoverso un simile portento giornalistico, quale appunto è questa vostra disamina.
    Ho letto varie recensioni, ma solo dopo essere uscito dalla sala e dopo essermi a caldo fatto una mia prima opnione e mi sono sentito ogni volta, durante la lettura di queui pezzi, come trasportato da una lercia macchina del tempo in un’Italia da Terrazza Martini e autoincensamenti reazionari e non già per volontà politica di lotta e resitenza al cambiamento, quanto piuttosto per incapacità ed ignavia di compredere i mutamenti che in arte regolarmente avvengono.
    Lode a voi invece per aver, senza capolavorazionismi, aver fatto in modo sobrio il punto sulle vere qualità di Mainetti e di questa seconda conferma del suo talento.
    Siete davvero unici, applausi, applausi, applausi.
    P.S. Non ho scritto questo perché avete parlato bene di un film che mi è piaciuto molto, ma perché lo avete spiegato a chi non l’ha capito.

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  2. La recensione migliore perchè più focalizzata, che coglie i tratti distintivi di un film di cui si è scritto e molto parlato ma forse disorientando il pubblico. Personalmente l’ho amato ed apprezzato come opera che ribadisce ed ulteriormente allarga e consolita una modalità di pensare, scrivere, riuscire a realizzare “un” cinema sorprendente, a tratti spettinato dove l’effetto del già visto è gioco segnico e non citazionismo fine a se stesso.

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