Tutto ebbe inizio dal breve saggio Visual Pleasures and Narrative Cinema dell’inglese Laura Mulvey, pubblicato nel 1975.
La Feminist Film Theory, a dispetto del nome, proponeva un’analisi del linguaggio cinematografico piuttosto complessa partendo dall’assunto che lo sguardo è maschile e l’offrirsi allo sguardo è femminile.
Il cinema metterebbe in scena il voyeurismo, dove il maschile è il soggetto ed il femminile è l’oggetto. Il che non significa, quindi, che il cinema sia fatto solo e soprattutto da uomini, ma che, a prescindere da chi lo faccia, la dialettica scopica resta quella maschile/femminile.
Partendo da questa premessa abbiamo pensato, in occasione dell’8 marzo, di stilare una lista particolare: film che incarnino, al di là delle intenzioni di partenza, un’ideologia piuttosto retrograda e conservatrice relativamente alla funzione del femminile nella rappresentazione (pensate a Sex & the City o a tutti quei film all women che, sotto sotto, celebrano l’ideale di una donna che non ce la fa da sola ed ha bisogno del principe azzurro).
E, novità, non l’abbiamo stilata noi. Abbiamo chiesto alle allieve del nostro corso di Analisi e critica, che mai come quest’anno sono numericamente più degli allievi, ed anche ad alcune firme femminili affermate, di indicarci almeno un film che le metta in imbarazzo come donne. Ve la proponiamo.
1 – Amore mio aiutami di Alberto Sordi
È il film scelto da Debora Attanasio (giornalista di Marie Claire, autrice del libro Non dite alla mamma che faccio la segretaria, pubblicato da Sperling & Kupfer e di cui potete leggere i capitoli inediti sul suo blog Non dite alla mamma che ho un sito). “Credo sia responsabile del 50% della violenza sulle donne, perché rappresenta la donna come infedele e sciocchina, nonostante al tempo il divario fra tradimento maschile e femminile fosse ancora più ampio di oggi. E, la cosa più grave, Alberto Sordi diventa un eroe quando la ammazza di botte in spiaggia, legittimando il concetto «la donna non si tocca nemmeno con un fiore, a meno che…». È un film che mi fa sentire in imbarazzo come donna”.
Anna Coluccino Guerriero (prima studentessa e poi docente per la Holden di Torino, giornalista per Fanpage, sceneggiatrice per Figli del Bronx e, last but not least, docente, a Pigrecoemme, del corso di Scrittura per la televisione; al momento lavora ad un progetto di laboratorio e di scrittura colletiva: Autorofficina) fa una premessa:
«Direste mai che una come Meryl Streep possa sentirsi discriminata?
A giudicare dal livello di esaltazione da stadio che l’ha colta nell’ascoltare l’arringa femminista di Patricia Arquette la quale, fresca vincitrice dell’Oscar per Boyhood e proprio in occasione della consegna, con grande compostezza e passione ha affermato la necessità – intanto – di un’equiparazione degli stipendi, e poi – che so? – che non sarebbe male assistere a un incremento di personaggi femminili parlanti (e aggiungerei: interessanti), alla fine dell’ostruzionismo sessista nei confronti di registe e sceneggiatrici (fenomeno di cui solo chi fa questo mestiere, con una vagina a corredo, può conoscere la vastità e la perniciosità) o veder rappresentata degnamente l’anzianità femminile.
Per questo, parlando di quanto alcuni film rappresentino la femminilità in maniera retrograda e sessista, desidero umilmente sottolineare la mia adesione allo “Yes. Yes. Yes!” urlato da Meryl Streep, lo stesso che avrei voluto urlare quando Tina Fey ed Amy Poehler – agli scorsi Golden Globes – hanno rivendicato il diritto di affermare che uno stupratore è una vile carogna, anche se si chiama Bill Cosby».
Anna ha scelto una saga:
2 – Twilight di AA. VV. (dai libri di Stephenie Meyer)
«Già il nome della protagonista è un concentrato di maschilismo: Bella ( e certo, cos’altro dovrebbe aspirare ad essere una donna?) Swan (Cigno, ovvero muto ed elegante uccello).
Ma già sento le prime obiezioni, di quelle che “il femminismo è la rovina delle donne” (ilcaoscenescampieliberi!), la seduzione è l’arma di sopravvivenza della donna e può essere utilizzata come strumento di conquista del potere. Contestazione opinabile, ma coerente e consistente. Peccato che no, Bella Swan non sia Mata Hari né una femme fatale da romanzo hard-boiled, ma solo un manichino senza volontà, né sogni, né progetti, né desideri se non quello di metter su famiglia. Il ruolo è stato scritto da una donna e – complice il successo planetario – è diventato simbolo dell’umanità femminile adolescente contemporanea. Per questa ragione, Bella Swan è – a mio avviso – l’incarnazione di un genocidio culturale (di genere) che continua a perpetrarsi nei secoli con buona pace di quelle che “ma dai che oggi possiamo fare tutto!”. La sua storia (che neanche per ridere mi abbasso a riassumere onde evitare spasmi e conati) è peggiore di qualunque rappresentazione fiabesca, pur detestabile, in cui vediamo la principessa languire in attesa di un principe che la salvi. Da sole ‘ste poveracce sono, infatti, del tutto incapaci di scendere dalla cazzo di torre, ammazzare un fetente di drago (o chi per lui) e costruirsi una sfaccimma di vita loro. Questo genere di personaggio è così infido che si insinua ovunque, anche in quel giornalismo molto giovane e colmo di buono intenzioni. Un esempio? Eccolo: ricordate il terribile video “contro la violenza sulle donne” in cui si chiedeva a dei bambini di picchiare una ragazzina (muta e senza identità, in balia dei desideri del maschio che decide se picchiarla o meno)? I bambini – e vorrei ben vedere! – non lo fanno e per il giornalista l’umanità è salva. Ma com’è che poi, da grandi, ‘sti bambini meravigliosi diventano tutti stronzi? Sarà che crescono guardando film di merda, leggendo molto poco e informandosi con video buonisti acchiappaclick.
Buon otto marzo di lotta, a tutte».
3 – L’amore è imperfetto di Francesca Muci
Rossella Scialla è nostra allieva di regia, sceneggiatura e di Analisi e critica. Pratica, quella critica, che già esercita nella rubrica Leggicinema che cura per l’Eco di Caserta.
«La scrittrice e regista Francesca Muci, dopo tre documentari, si cimenta nella sua prima opera cinematografica, L’amore è imperfetto, tratta dal romanzo omonimo che porta la sua firma: uno sguardo in apparenza imparziale e acritico sulle anomalie dell’amore. Giochi di ruolo, libido che non seleziona sesso o età, ma si nutre solo del suo nuovo appetito, scoperta di sé, nello sforzo di raccontare un personaggio femminile in grado di abbattere lentamente tutti i suoi tabù. Il disperato tentativo iconoclasta, però, non riesce. Lo sforzo si sente, eccome. Le due donne, la regista e il suo personaggio femminile interpretato da Anna Foglietta, restano impantanate in quegli stessi tabù che cercavano di demolire, mostrando un amore confuso più che imperfetto, da un solo punto di vista. Scegliendo di rimanere sempre sulla soglia, adottano una prospettiva voyeuristica che sembra dirci: “Noi stiamo solo dando un’occhiata”, sulle note di L’amore è una cosa semplice di Tiziano Ferro. Elena (Anna Foglietta) spazia tra varie identità sessuali e, più che confusa, appare intollerabilmente e ingenuamente volubile e irresoluta. Non sceglie mai, fa in modo che siano gli eventi a decidere per lei e così, anche quelle che sembrano posizioni forti ed estreme, perdono tutta la loro consistenza. Non è smarrimento il suo, né ricerca esistenziale tipo La Vita di Adele, bensì lento assoggettamento alle condizioni esistenti di scarsa levatura morale per non dire scevro di qualsiasi spessore. La Muci si allontana da uno stereotipo femminile solo per abbracciarne un altro. Volutamente sbiadito, come il personaggio che lo incarna».
4 – La rivincita delle bionde di Robert Luketic
Wanda Luongo è allieva del corso Filmaker di Pigrecoemme e sta attualmente seguendo il corso di Analisi e critica.
«Perché sprecare preziosi minuti di vita per guardare una svampita bionda ossigenata di 1,50 m nel suo tentativo di diventare avvocato? La risposta ancora non l’abbiamo trovata. La strumentalizzazione dello stereotipo di donna “bella, bionda e sciocca” in questo film è ovvia. Elle Woods (Reese Whiterspoon) non vuole essere un avvocato per ambizione, ma per dimostrare all’ex fidanzato di non essere frivola come sembra. Evidente la miscela di componenti sarcastiche, banali quanto il film stesso».
5 – Ricordati di me di Gabriele Muccino
Alba Tarabbo, come Wanda, è allieva del nostro corso “Filmmaker“.
«Italia, anno 2003. Attraverso uno spaccato di una moderna famiglia borghese scopriamo ansie e frustrazioni di una generazione insoddisfatta. Abbastanza sconsolante il quadro umano che emerge, un quadro fatto di uomini e donne scontenti di quel che sono, di quello che li circonda e che cercano di essere migliori, e soprattutto di sembrarlo.
Ecco, quindi, ragazzette senza arte né parte, dai propositi vanagloriosi e di ricchezza, ecco madri che o le incoraggiano nei loro propositi o, pur disprezzandoli, non ne bloccano la deriva.
D’altronde non possono fare altrimenti. L’insoddisfazione causata da un matrimonio logoro e da una vita personale votata alla famiglia indebolisce le maglie del rigore materno, tanto più se conosce in prima persona la frustrazione di un sogno infranto.
La possibilità di ottenere altro sembra armare il desiderio di distacco e di rivoluzione che nutrono queste madri, che allo stesso tempo si scontra con la comodità del ruolo di custodi del focolare.
C’è poco da sorridere: isterismi e autocommiserazione sono all’ordine del giorno, le aspirazioni perlopiù fatue, e l’appagamento personale soltanto una parvenza. Neanche il coraggio del prendere una decisione e subirne le conseguenze garantisce la certezza di felicità, come se nonostante sia a portata di mano la serenità non possa essere mai afferrata».
http://youtu.be/svUFR1egIt8
6 – Magdalene di Peter Mullan
Arianna Brancaccio è attualmente allieva del corso di Analisi e critica di Pigrecoemme. La sua è una scelta dettata da un sentimento di repulsione non verso il film e la rappresentazione che dà delle donne, ma verso quanto racconta. E la regia di questa, stavolta lucida, analisi della condizione femminile, a dimostrazione che si tratta di questione culturale più che di genere, è di un uomo.
«Nell’Irlanda degli anni sessanta, le ragazze colpevoli di aver sperimentato il proprio corpo, vengono costrette dalle famiglie ad un ambiente mortificante: un convento devoto a Maria Maddalena in cui, obbligate a lavorare come lavandaie, si rassegnano ad essere umiliate.
Il film fa riflettere: non ci vergogniamo di esser donne, semmai siamo state “abituate” alla vergogna, al denigrante stereotipo secondo il quale, perché la società ci accetti, quasi occorre che perdiamo la nostra soggettività, la nostra autonomia, la voglia di esprimerci e di vivere.
È la paura del rifiuto sociale ad averci costrette ad accettare secoli di subalternità. Una paura che, forse oggi latente, non è ancora scomparsa».
7 – The Wedding Party di Leslye Headland
Delia Cortini è stata diversi anni fa allieva del nostro corso di Analisi e critica.
«Il successo più grande del pregiudizio, come per il diavolo, è far credere al mondo che non esiste.
L’invasione di commedie al femminile, politicamente scorrette sul matrimonio (ci aggiungerei Le amiche della sposa e Bride Wars), nasconde, biecamente, un’ideologia retrograda. Fateci caso: in questi film quelle che disdegnano il matrimonio o sono tristi (e lo fanno perché non hanno trovato l’uomo giusto) oppure ci ripensano.
La questione si aggrava in quanto questi film sono anche professionalmente ineccepibili, suscitano il riso e quindi non si lasciano rifiutare. Piacciono e veicolano ideali discutibili».
8 – Maleficent di Robert Stromberg
Carolina De Siena è stata una delle prime allieve del corso di Analisi e critica della Pigrecoemme. Nella vita fa tutt’altro, ma, per l’occasione, ha voluto ritirare fuori le unghie dell’analisi caustica e senza sconti.
«Le cattive dei film Disney, se non matrigne, sono spesso l’unica oasi di indipendenza femminile. Non saranno delle benefattrici, ma almeno Crudelia De Mon e Malefica si possono ammirare per come sanno governare la propria vita da sole. La versione live action della favola della Bella Addormentata raccontata dal punto di vista della villain ci rovina anche questa illusione.
Malefica non è cattiva, è solo inacidita dal solito maschio approfittatore. Ma poi scopre l’istinto materno (ché è impensabile per una donna esserne priva) ed allora tutto finisce bene. Anzi, il bacio del vero amore non è quello di un principe, ma quello di una mamma, per quanto putativa.
Sembrerà una roba femminista, ma è solo una truffa».
Mi pare un’analisi scritta con la coda di paglia. Non è che un film deve per forza mostrare donne forti, altrimenti si tradisce l’ideale femminista. La realtà infatti è fatta di persone, con tutti i loro difetti, oltre che pregi. Non sono bianche o nere, anzi, più sono grigie, più sono realistiche. I personaggi dei film summenzionati sono così.
Passi the wedding party, che è una classica commediola che caratterizza volutamente i personaggi, ma proprio per fare il verso a certi atteggiamenti; infatti è una commedia, fatta per riderci sopra.
I film di Sordi poi sono sempre nichilisti, dipingono realtà spesso tristi, situazioni tragiche. Vero realismo italiano. Le passioni portano anche a gesti sopra le righe, siamo umani. Ma ti pareva che il film fosse stato lo stesso se non si svolgeva così?
Poi non si può pretendere che nei film i ruoli non esistano, giacchè nella realtà invece esistono nei fatti, senza che sia mai stato dimostrato che sia una questione culturale.
Alla fine poi, i personaggi dei film non sapevano di essere ripresi e di dover fungere da esempio ad altri, semplicemente sono se stessi. Nel nostro caso, parlando dei personaggi femminili, se stesse. Donne, a volte forti, ma altre no, umane, con le loro debolezze, che qui si palesano. Mia impressione è che troppo spesso rappresentare nei film di oggi donne forti, un must, significa dipingerle davvero antipatiche, che nella realtà avrebbero non dico pochi amici, ma anche poche amiche!
Drogati di meno!
Credo che ti sia sfuggito il senso del post, e deduco, dal verbo “drogati” usato al singolare che tu non lo abbia letto, dal momento che il post è scritto da più persone (avresti dovuto scrivere “drogatevi di meno!”), tutte donne.
Io inserirei “C’era una volta in America” di Sergio Leone. Un film tecnicamente ben confezionato, ma nel quale le figure femminili sono assolutamente insulse, prive di spessore e funzionali solo al mero voyeurismo del pubblico, soprattutto maschile.
Io ho trovato questo film (ritenuto quasi unanimemente un capolavoro) davvero squallido e triste.
Io aggiungerei praticamente tutti i film italiani…soprattutto quelli di Sorrentino, sa donna mi imbarazzo davvero a guardarli
Mi ha fatto piacere leggere queste analisi: personalmente ritengo che, nella sostanza, il cinema – salvo rarissime eccezioni – veicoli in modo spesso camuffato di buone intenzioni una perversa volontà di sminuire la donna e relegarla in posizione “secondaria” se non “terziaria”; le stesse locandine dei film costituiscono un’efficace ed esplicita rappresentazione di ciò.
Il problema è che questa cultura massiva, assorbita per lo più in modo ingenuo e acritico, non fa di certo progredire gli uomini (i maschi) ma li riduce a un esercito di narcisisti manipolatori MANIPOLATI mentre inculca nelle donne un senso di “intrinseca subalternità”.
Dal mio punto di vista ne emerge un progetto diabolico, distruttivo, che vede nella realizzazione del potere di morte il proprio obiettivo.