Di come Birdman arrivi alla verità e Whiplash solo alla realtà.

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Ci sono due opere particolarmente interessanti che concorrono agli Oscar 2015 (a parte Boyhood, un film-teoria che mette insieme l’immagine-tempo e l’immagine-movimento di Deleuze restituendo, ad un tempo e del tempo, sia un’immagine diretta che indiretta, per dirla, stavolta, con Henry  Bergson): Whiplash di Damien Chazelle e Birdman  or (The Unexpected Virtue of Ignorance) di Alejandro González Iñárritu. Whiplash è l’opera prima di Damien Chazelle (sceneggiatore di Il ricatto di Eugenio Mira, un thriller anche questo declinato in forma musicale) derivante da un suo cortometraggio dell’anno precedente in cui J.K.Simmons già rivestiva il ruolo dell’inflessibile Fletcher.

In Whiplash Chazelle utilizza la m.d.p. in modo da catturare la realtà della performance. Che, nel caso soprattutto del protagonista è performance sia del personaggio Andrew Neyman sia dell’interprete Miles Teller che davvero suona la batteria. Tutto (dettagli, particolari, inclinazioni, macchina a mano ed attaccata ad Andrew, finanche nella spettacolare sequenza dell’incidente) contribuisce a costruire una realtà, in cui lo spettatore crede, che è la realtà del film. Inutile dire che la storia, però, è più paradigmatica che vera, con quel direttore d’orchestra che pare uscito da Full Metal Jacket o Ufficiale e gentiluomo, la trance quasi agonistica del protagonista (un’etica del sacrificio per l’ottenimento del risultato che pare quella degli anime sportivi tipo Mimì e le ragazze della pallavolo) che addirittura dopo un incidente d’auto si sfila dal rottame e corre in teatro per suonare, nonostante abbia le dita presumibilmente fratturate. Di Whiplash si ammirano quindi principalmente le interpretazioni.

Tutt’altra cosa succede con Birdman che, ad oggi, rappresenta il capolavoro di Iñárritu. Perché? Tecnicamente, il film rappresenta una palingenesi per il regista del montaggio acronologico per eccellenza (Amores Perros, 21 grammi, Babel) che, quasi a purificarsi, gira un virtuosistico pianosequenza (finto, come quello dell’ Hitchcock di Nodo alla gola) interrotto poco prima della fine da un sintagma a graffa pieno di inserti non diegetici (o soggettivi se vogliamo, visto quanto occorso al protagonista), salvo riprendere nell’ultimo blocco del film (che si chiude, così come un altro bellissimo film recente, The Drop di Michaël R. Roskam, con uno stupendo ed evocativo fuori campo nel quale si relega l’happy end, che, di conseguenza, non viene spiattellato, ma lasciato all’immaginazione dello spettatore).

https://www.youtube.com/watch?v=dIcCMxUEW4s

Il pianosequenza, però, col suo essere figura retorica tipica del cinema/teatro, è anche la scelta linguistica più azzeccata, vista la trama del film, anche se, altro colpo di genio, trattasi di pianosequenza che nega la continuità in quanto contiene, al suo interno, ellissi diegetiche più (i time lapse) o meno evidenti.

Birdman è una commedia drammatica, molto intelligente, sull’essere e l’apparire 2.0., ma, rispetto ad altre pellicole analoghe, ha dalla sua un ingrediente in più: Michael Keaton. Iñárritu compie un’operazione analoga a quella portata avanti da Darren Aronofsky con The Wrestler: arrivare alla verità, pur raccontando di un mondo sostanzialmente basato sulla finzione. Lì il wrestling, qui il teatro ed il cinema. È con quella sovrapposizione tra attore e personaggio (Michael Keaton è un attore, un tempo celebre come incarnazione di un supereroe in una serie fortunata di blockbuster, che cerca di rifarsi una verginità – come il regista? – portando a teatro un adattamento da Carver) che il film arriva alla verità, anzi al “sangue della verità”. Sicché, mentre Whiplash ti dice qualcosa di più sugli attori J.K. Simmons  e Miles Teller, Birdman ti dice qualcosa di più sulla persona Michael Keaton. E quindi su di noi.

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