Non è la prima volta che pubblichiamo sul nostro blog recensioni o saggi di nostri allievi. È motivo di grande soddisfazione quando accade perché uno dei nostri principali obiettivi è quello di guidare i partecipanti ai nostri corsi (specialmente quanti si iscrivono al Corso di Analisi e Critica) a modalità di visione più consapevole, non passiva, insegnare le metodologie corrette per affrontare l’analisi di un testo filmico, spesso complesso e sincretico (per dirla con György Lukács). Il corso di Analisi e Critica che si è appena concluso aveva una parte monografica dedicata a Ettore Scola (il prossimo, a partire dal 5 aprile, invece si concentrerà su Brian De Palma). I film analizzati dagli allievi erano C’eravamo tanto amati, Il commissario Pepe, Una giornata particolare e Dramma della gelosia. Di C’eravamo tanto amati ci ha colpito particolarmente la recensione/saggio di Stefano Sessa (che ha messo a frutto le considerazioni di Lino Miccichè contenute in Filmologia e filologia) e pensiamo sarebbe uno spreco se restasse confinata nell’ambito dei “compiti a casa” di un percorso formativo. Ecco perché la pubblichiamo e la sottoponiamo all’attenzione dei lettori del nostro blog. Buona lettura (lo sarà davvero, buona).
Troppo spesso, quando si parla di Ettore Scola, si ricorda in maniera pressoché unilaterale la sua prolifica carriera registica. Si dimentica, invece, l’altrettanto copiosa attività di sceneggiatore con cui il giovane artista, nato nel 1931 a Trevico, ha compiuto i primi passi all’interno del mondo del cinema. La questione non attiene semplicemente alla corretta ricostruzione storica della carriera di Scola, ma riguarda la natura stessa del suo approccio al mezzo cinematografico e la concezione che fa da fondamento a tutta la sua opera. Un americano a Roma di Steno, Adua e le compagne, La parmigiana e Io la conoscevo bene diretti da Antonio Pietrangeli, Il sorpasso, La marcia su Roma e Il Gaucho di Dino Risi sono soltanto alcuni dei numerosi film a cui Scola ha lavorato, co-firmandone soggetto e sceneggiatura.
Soltanto dando il giusto peso al lavoro di scrittore di sceneggiature è possibile comprendere a pieno la poetica di uno degli autori più apprezzati, dentro e fuori i confini nazionali, della cinematografia italiana e di quel grande contenitore passato alla storia come Commedia all’italiana. Non a caso, durante la preparazione del libro-intervista di Antonio Bertini, Scola parla di sé stesso non come regista, ma come scrittore di cinema.
Ed è proprio a partire dalla scrittura e dalla struttura narrativa che intendiamo cominciare l’ analisi di un’opera complessa e stratificata come C’eravamo tanto amati.
Roma, esterno giorno. I titoli di testa scorrono mentre una modesta automobile, ripresa in campo medio, imbocca un vialone adiacente all’imponente villa dell’Olgiata. Due uomini e una donna scendono dall’auto e si avvicinano perplessi all’entrata della villa; l’inquadratura successiva mostra una figura intera all’interno della villa. Con solenne alterigia, indossando una vestaglia e fumando una sigaretta, l’uomo muove alcuni passi. L’inquadratura si sposta nuovamente sul vialone, la scena iniziale si ripete altre due volte in maniera quasi uguale con l’arrivo dell’automobile e i tre personaggi che ne fuoriescono. Si aggiungono pochi altri elementi che enfatizzano nuovamente l’aria perplessa dei tre: fanno ipotesi, congetture. Sono spaesati, si trovano davanti ad una situazione che tradisce palesemente le loro aspettative. Si percepisce che ciò che credevano, in realtà non è. L’inquadratura si sposta ancora nella villa, dove il personaggio in vestaglia esce ancora una volta dall’abitazione. Si avvia verso lungo il prato, mentre il montaggio alternato mostra, con un piano americano, i tre personaggi muoversi all’esterno della villa, lungo la recinzione murata. I tre vedono l’uomo all’interno, con un raccordo di sguardo la mdp stringe l’inquadratura sull’uomo nella villa, la donna esclama: -Ma è Gianni! Gli altri due risultano ancora una volta spiazzati, annuiscono leggermente. L’uomo nella villa si avvicina alla piscina, sale sul trampolino, resta in costume da bagno e si lancia in un tuffo: resta a mezz’aria, l’inquadratura si blocca per poi spostarsi sul primo piano di uno dei due uomini affacciati alla recinzione. La voce fuori campo dell’altro, seguita da un primo piano dello stesso, si rivolge con uno sguardo in macchina direttamente allo spettatore, avvertendolo che il tuffo si concluderà alla fine di una storia iniziata trent’anni prima. (durata: 3′ 15”)
Si tratta di un incipit chiaro e asciutto, che mette immediatamente lo spettatore di fronte all’ampio respiro temporale sui cui la narrazione si dipana, inserendo in maniera sottile quello che, man mano che le storie (e la Storia) dei protagonisti andranno avanti, sarà uno dei temi principali della pellicola: la dialettica tra speranza e delusione, tra le fiduciose aspettative future e il tradimento della realtà presente.
Dopo l’incipit ha inizio il lungo flashback che costituisce l’intero corpo filmico, prima della conclusione con la ripresa e la chiusura della sequenza iniziale alla villa dell’Olgiata. È possibile suddividere il film in due parti, sulla scia delle particolari scelte fotografiche operate da Scola. Fino al minuto 54, infatti, la fotografia utilizzata è in bianco e nero; il periodo a cui si riferisce va dagli anni 1944-45, ovvero il periodo della Resistenza, fino alla fine degli anni ’50. Da quel momento, fino al termine del film e del suo arco narrativo, la fotografia è a colori. L’utilizzo del bianco e nero, oltre ad essere coerente con il grado di sviluppo tecnico della fotografia cinematografica del periodo storico a cui si riferisce, offre la possibilità di un uso delle luci che avrà un ruolo diegetico di estrema importanza. Il passaggio a colori, invece, farà coincidere l’evoluzione della tecnica con i cambiamenti esistenziali dei quattro personaggi principali, tra ciniche evoluzioni (quella di Gianni Perego/Gassman) e fallimentari involuzioni (quella di Nicola Palumbo/Stefano Satta Flores).
Suddivisione in sequenze prima parte:
Gli anni della Resistenza. Nicola, Gianni e Antonio (Nino Manfredi) si trovano sulle montagne innevate insieme ad un gruppo di partigiani. Gianni ha appena occultato un ordigno sotto un cumulo di neve sulla strada; una carovana di convogli militari avanza e, al momento opportuno, Nicola fa detonare l’ordigno. Immediatamente dopo lo scoppio, il montaggio stacca su immagini, di cui alcune di repertorio, in cui masse di uomini celebrano l’avvenuta liberazione dal nazi-fascismo. ”Scoppiò il dopoguerra” e le strade dei tre amici-partigiani si dividono. Si alternano le voci fuori campo dei tre protagonisti mentre scorrono immagini di repertorio riguardanti i febbrili giorni pre e post referendum istituzionale.
Mentre la voce fuori campo di Antonio si pronuncia sugli effetti del Piano Marshall sul governo della Repubblica italiana, le inquadrature si spostano nell’ospedale dove lavora lo stesso Antonio. Rivolgendo sempre lo sguardo in macchina continua il suo racconto fino al punto in cui, proprio in ospedale, conosce Luciana (Stefania Sandrelli), aspirante attrice friulana.
Luciana e Antonio sono a teatro. Antonio è visibilmente insofferente, mentre Luciana si trova pienamente a proprio agio in quello che vorrebbe che fosse il suo mondo. Lo spettacolo è Strano interludio di O’Neill, in cui spesso i personaggi si rivolgono direttamente al pubblico, confessando i propri pensieri e le proprie intenzioni senza essere ascoltati dagli altri personaggi.
Fuori dal teatro, fingendo di usare la stessa tecnica narrativa, Antonio confessa il suo amore a Luciana.
Al ristorante “Mezzaporzione” casualmente Gianni incontra Antonio, che si trova in compagnia di Luciana. Traspare tutta l’ammirazione verso Gianni, che isolato attraverso un fascio di luce si rivolge, proprio come nell’opera di O’Neill, solamente al pubblico, confessando l’interesse immediato provocato da Luciana. Dopodiché Luciana, allo stesso modo, conferma la reciprocità del sentimento.
Interno notte: ospedale. Antonio è infervorato a causa del boom elettorale a favore della DC. I due amanti confessano ad Antonio i loro sentimenti. Antonio, dopo un iniziale malore, sembra incassare il colpo senza reazioni, ma poco dopo la sua rabbia esplode e si manifesta fisicamente contro Gianni. Nelle inquadrature successive Gianni e Luciana progettano assieme il loro futuro.
Nocera Inferiore. Cineforum liceale con proiezione di Ladri di biciclette. La voce fuori campo di Nicola spiega, mentre scorre la sequenza finale del suddetto film, l’importanza che quest’opera ha avuto per la sua esistenza e per quella del cinema italiano. Durante il dibattito i giudizi verso il film, però, sono impietosi. Furiosa reazione di Nicola che viene licenziato dal preside del Liceo e che viene invitato dalla moglie a scegliere tra gli ideali e la famiglia. Nicola sceglie gli ideali, trasferendosi a Roma con l’intenzione di fondare una rivista cinematografica (Cinecultura).
Gianni muove i primi passi nell’avvocatura. Malgrado le sue idee progressiste e socialiste, si trova a rendere i suoi servizi ad un ricco palazzinaro romano senza scrupoli, Romolo Catenacci (Aldo Fabrizi). Appare per la prima volta Elide (Giovanna Ralli), figlia di Romolo. Ragazza in carne e ignorante, si invaghisce immediatamente di Gianni.
Luciana abbandonata da Gianni vaga per Roma. Incontra Antonio e Nicola da Mezzaporzione. A Piazza di Spagna Nicola riproduce davanti a Luciana la scena della carrozzella sulla scalinata de La corazzata Potemkin. Seppur ancora interessato a Luciana, Antonio è ancora troppo adirato, così la tratta in malo modo e riversa su di lei tutto il suo astio.
Nicola e Luciana restano da soli, passado la notte insieme nel misero e lugubre appartamento di Nicola.
Luciana è alla Pensione Friuli dopo un tentativo di suicidio commesso a causa dell’abbandono di Gianni. Lì confessa ad Antonio la relazione, già terminata, con Nicola. Gianni, avvisato da Nicola, si reca alla pensione, ma decide di non farsi vedere quando vede i tre uscire insieme. Luciana va via su un furgone. Un madonnaro sta disegnando sulla strada; la mdp con un campo lungo mostra i due che si allontanano in due diverse direzioni. Al centro dell’inquadratura resta il madonnaro intento a disegnare sulla strada; la mdp stringe sulla madonna e sul disegnatore e in maniera graduale iniziano a colorarsi.
Suddivisione in sequenze seconda parte
La prima sequenza a colori si apre sul tetto di un palazzo costruito dall’impresa di Catenacci. Esterno giorno. Gianni, ancora con lo sguardo in macchina, informa direttamente lo spettatore sull’evoluzione della sua storia personale. Dopo aver lasciato Luciana si è sposato con Elide, diventando consulente legale del padre. Breve flashback in bianco e nero in cui viene mostrata la rottura tra Gianni e Luciana. Elide, pur consapevole dell’ignoranza ereditata dal padre, cerca continuamente l’approvazione del marito che la indirizza tanto sul piano intellettuale quanto su quello alimentare. Tuttavia, non riceve dal marito altro che affettuosa indifferenza.
L’inizio e la fine della tragicomica esperienza di Nicola a Lascia o raddoppia, dove si presenta in qualità di esperto di Storia del cinema italiano. Attraverso questa esperienza sembra riacquistare credibilità, soprattutto agli occhi dei compaesani che tanto lo avevano dileggiato. Tuttavia, il suo sogno di arricchimento e di riconoscimento intellettuale fallisce davanti ad un’ambigua domanda riguardante proprio il finale di Ladri di biciclette.
Esterno notte. Antonio incontra Luciana sul set di La dolce vita, dove spera di ottenere un ruolo da comparsa. Segue un breve ed apparentemente positivo provino davanti allo stesso Fellini e Mastroianni. Antonio vorrebbe rivederla il giorno dopo, ma Luciana frequenta in quel periodo un produttore cafone con la recondita speranza di poter sfondare nel mondo del cinema. Tra Antonio e il produttore scoppia una lite.
Scorrono fotografie in bianco e nero di Michelangelo Antonioni e alcuni fotogrammi di L’eclisse. La voce fuori campo di Elide rivela una nuova padronanza di linguaggio, con cui riflette sulla propria personalità e sul fardello dell’incomunicabilità. La mdp stacca sulla rinnovata figura di Elide, in perfetta forma e dotata di una bellezza mai così consapevole. Registra la propria voce su un nastro. Eppure, è un forte disagio a trasparire dalle sue parole.
Villa Catenacci, studio del capofamiglia. Un’aspra discussione tra Gianni e Romolo rivela l’altra metamorfosi. Quella di Gianni, che con rabbia e violenza si scaglia contro il suocero, reo di non voler cedergli il comando delle imprese. Gianni appare senza scrupoli e megalomane.
Esterno giorno. Piazza di Porta San Giovanni. Antonio fa il resoconto delle proprio vicende mentre passeggia con una “compagna”: la sorte non l’ha assistito, ma la militanza politica continua a tenerlo occupato. Una voce femminile fuori campo urla il suo nome: è Luciana. La “compagna” viene frettolosamente allontanata e poco dopo Antonio scopre che Luciana ha un figlio.
Cinema, proiezione di Schiavo d’amore con Kim Novak. La mdp si sposta dallo schermo sul primo piano di Antonio. Alle sue spalle si vede in piedi Luciana che lavora come maschera nella sala. I due si scambiano sguardi furtivi, la mdp ritorna sullo schermo, ma questa volta le parole e le voci dei personaggi di Schiavo d’amore sono proprio quelle di Luciana e Antonio. I due confessano l’affetto reciproco.
Villa Catenacci. Gianni è in auto, sta per uscire, ma Elide dice di volergli parlare. L’insofferente Gianni accetta ed Elide gli fa ascoltare una registrazione, in cui confessa al marito di aver conosciuto un altro uomo. L’intento reale, tuttavia, è quello di smuovere l’amato marito dallo stato di cronica indifferenza verso la moglie. Gianni, però, resta impassibile. Elide esce dall’automobile del marito, entra nella sua e fugge via.
Esterno notte. Gianni si trova in uno sfasciacarrozze. Un fascio di luce illumina una pila di auto; sulla cima, dove il fascio di luce è più forte, si trova l’automobile di Elide. La luce aumenta man mano e appare Elide, morta in un incidente. Ancora una volta la donna cerca, invano, quell’attenzione e quell’amore che il marito non le ha dato in vita. Il fascio di luce si spegne e Gianni va via.
La voce fuoricampo di Nicola riporta il racconto al periodo contemporaneo, caratterizzato da attentati eversivi e repentini insabbiamenti. La mdp sulla figura di un Nicola invecchiato e ormai fallito; in compagnia di un amico si trova in mezzo ad una gremita platea. Sul palco Vittorio De Sica racconta un aneddoto sul finale di Ladri di biciclette, rivelando così la giustezza della risposta data da Nicola durante Lascia o raddoppia. L’amico di Nicola lo incalza ad andare a salutare il suo idolo, ma ormai stanco e disilluso, Nicola non può che constatare la tristezza di fronte alla vanità delle speranze del passato, trasformatesi inesorabilmente in cocenti delusioni.
Esterno giorno. Piazza del popolo. Gianni e Antonio, che non si vedono dal giorno della scazzottata per Luciana, si incontrano casualmente. Gianni è alle prese con le macchine in doppia fila perché vuole tirar fuori la sua Jaguar; Antonio non sa della vita facoltosa di Gianni e lo scambia per un parcheggiatore. Gianni sta al gioco e non rivela la sua vera situazione. Antonio lo invita a cena da Mezzaporzione, Gianni accetta, ma alla fine della scena lascia intendere allo spettatore che a quella cena non andrà.
Ancora villa Catenacci. Un ormai decrepito Romolo viene adagiato con una gru all’interno del giardino. In quell’enorme villa sono rimasti solo loro due. Nella mente di Gianni riaffiora il ricordo, in bianco e nero, della felicità che, con Nicola e Antonio, provarono al termine della guerra.
Stacco immediato sui tre amici ormai attempati all’interno del ristorante Mezzaporzione. Si abbracciano, proprio come si abbracciarono alla fine della guerra nel precedente flashback di Gianni. Mangiano, scherzano, ridono. Parte un breve flashback di Gianni, in un bianco e nero ingiallito e diverso da quello usato nella prima parte: i tre amici sono ancora al fronte, ma Gianni è caduto in battaglia. Di colpo, però, l’atmosfera si fa seria. Gianni irrompe perentorio con una battuta sui fallimenti dei propositi della loro generazione e sui loro fallimenti personali. La scena prosegue fuori dalla trattoria dove Antonio e Nicola discutono animatamente sull’imborghesimento del proletariato. Gli animi si scaldano e la scena termina con il pianto di Nicola.
I tre amici ritrovati sono in auto e seguono le indicazioni di Antonio. Si fermano davanti ad una scuola dove un folto numero di persone si trova accampato, aspettando l’apertura della scuola per iscrivervi i propri figli. Avanzano tra la folla fino a quando Antonio presenta sua moglie a Gianni e Nicola. La donna è di spalle, si volta: è Luciana. Gianni comprende di aver anteposto il denaro e il potere all’amore di Luciana, che ora appare felice con Antonio. Dopodiché si allontana senza salutare gli amici.
Finale. La sequenza riprende da dove si era fermata, con i tre amici andati da Gianni per riportargli il portafoglio che aveva dimenticato. Preso atto della vera situazione economica di Gianni, i tre si allontanano. Perplessi e spiazzati, non possono che rifugiarsi dietro un laconico “boh”.
Trent’anni di Storia, trent’anni di storie
Quando Dennis Hopper incontrò Ettore Scola non poté fare a meno di confidargli tutto il suo apprezzamento per Il sorpasso, vera e propria fonte di ispirazione per il regista-attore americano durante la preparazione di Easy Rider (non a caso la pellicola diretta da Risi e sceneggiata dalla coppia Scola-Maccari nel 1962 uscì nelle sale cinematografiche statunitensi con il titolo The Easy Life). Nel giro di pochi anni, entrambe le pellicole divennero cult, entrando nell’immaginario collettivo di intere generazioni. Restano, ancora oggi, due dei titoli più importanti del genere road-movie; film dove uno o più personaggi si mettono in viaggio, a volte alla ricerca di qualcosa e altre volte in fuga da qualcosa, il più delle volte senza una meta precisa.
Accostare una pellicola come C’eravamo tanto amati al genere road-movie potrebbe sembrare sbagliato, quantomeno fuori luogo. Eppure, il tema del viaggio non è affatto estraneo alla produzione e alla poetica di Ettore Scola; basti pensare al viaggio-avventura in Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa e in Il viaggio di Capitan Fracassa, al viaggio dell’emigrante in Permette? Rocco Papaleo e Trevico-Torino – viaggio nel Fiat-Nam, al viaggio-fuga in Il mondo nuovo. Certo, se parliamo di viaggio in relazione a C’eravamo tanto amati non possiamo che farlo con un’accezione del tutto particolare: non è un viaggio nello spazio quello che viene offerto allo spettatore, non c’è un percorso più o meno predeterminato da un punto di partenza ad uno di arrivo, i personaggi non si muovono lungo una strada fatta di asfalto, bensì lungo un itinerario in cui a scorrere non sono i chilometri, ma le lancette dell’orologio e le pagine del calendario.
Un viaggio nel tempo e nella Storia, un viaggio lungo trent’anni all’interno di un veicolo chiamato Italia. Eppure, non è possibile definire questo o altri film di Scola dello stesso tenore come film storici. La Storia, quella politica dei grandi eventi e dei personaggi illustri, non gioca un mero ruolo di contesto o di sfondo, certo, ma non è mai la vera ed assoluta protagonista. Piuttosto, la grande Storia stabilisce sempre un rapporto dialettico e oppositivo con le piccole storie di personaggi comuni. La sensibilità del regista nato a Trevico non si eccita davanti alle gesta dei capi-popolo, dei capi-partito o dei sovrani, ma si esalta nel dar voce a storie individuali all’ombra della Storia. Nel film in questione, così come in pellicole come Una giornata particolare e La famiglia (dove addirittura il viaggio temporale si dilata fino a coprire quasi un secolo di Storia), i protagonisti sono antieroi in contrasto con il mondo nel quale si trovano, il più delle volte schiacciati dalla Storia che accade sopra di loro. È sempre l’uomo al centro delle narrazioni di Scola, l’uomo con i propri problemi e aspirazioni, i disagi, i timori e i fallimenti, le sue reazioni davanti ai grandi avvenimenti e mutamenti storici. Dietro questa precisa scelta autoriale si cela la consapevolezza che “queste storie comuni siano grandi e abbiano la stessa dignità di quelle dei celebri personaggi storici”. Lo stesso Scola ci dice che “l’uomo subisce i fatti della storia solo in apparenza. Può vivere più scomodamente, in stato di tensione e di allarme, può anche essere ucciso, ma dal punto di vista filosofico, fisiologico, etico, è l’uomo che ne esce vincitore, è l’uomo che è importante, non i Napoleoni. La storia non è storia se non è anche storia dell’individuo: perché non si può parlare della Storia se non si parla degli effetti che ha sull’individuo.”
Il trentennale viaggio storico di C’eravamo tanto amati inizia con la Resistenza e la conseguente liberazione dal nazi-fascismo: Antonio, Gianni e Nicola, insieme ad altri partigiani si trovano su montagne innevate con l’obiettivo di sabotare e neutralizzare una carovana di nazisti invasori. È un momento estremamente particolare, per almeno due ordini di motivi. Innanzitutto, è un momento di reale partecipazione di uomini comuni al corso dei grandi eventi storici; i destini individuali si incrociano fino a coincidere pienamente con il destino storico di un Paese intero; tre uomini provenienti da tre diverse parti d’Italia si trovano insieme a difendere il proprio territorio e le proprie idee. Soprattutto, però, è l’unico vero momento lieto e felice del film (rievocato anche nel flashback di Gianni durante la scena 12 della seconda parte, quando i tre amici festeggiano l’avvenuta liberazione). La genuina felicità al termine della tragedia, sottolineata dalle immagini di repertorio sul popolo sorridente ed in festa, è quella di un Paese colmo di speranze e di fiducia, aperto con ottimismo alle possibilità offerte dal futuro. Neanche il tempo di festeggiare la vittoria al referendum istituzionale, però, che iniziano, inesorabili, le prime delusioni politiche: in cambio del pacchetto di aiuti del Piano Marshall, comunisti e socialisti vengono spinti fuori dal governo. Antonio, portantino comunista, cede il posto ai portantini democristiani. La ricerca di una felicità sociale, piano a piano, cede il posto ad un perseguimento privato e individuale della felicità. Svolgimento del tema: la sconfitta storica e sociale della sinistra italiana.
Scola, come ogni vero e libero artista, non si è mai fatto ingabbiare nelle strette maglie dell’ideologia di partito. Tuttavia, l’attenzione per le sorti degli operai e per quelle della sinistra italiana è sempre stata centrale nella sua opera. Come afferma lo stesso Scola, la domanda di fondo in molte sue opere sembra essere: che fine ha fatto Antonio Ricci, l’operaio-attacchino di Ladri di biciclette? È diventato Antonio il portantino oppure Oreste il muratore di Dramma della gelosia. La storia della politica italiana è piena zeppa di speranze disattese, di illusioni e delusioni, di promesse mancate. Suggestioni sintetizzate dalla parabola di Gianni Perego, avvocato di sinistra squattrinato, ma onesto. Quasi non volendo, alla fine dell’arco temporale del film, diventa ciò che non avrebbe voluto diventare: cinico, avido di potere e megalomane. Proprio come il suocero Romolo Catenacci, ricco e ignorante palazzinaro, il quale comprende subito l’onestà di Gianni, ma al tempo stesso è consapevole che “negli onesti c’è quella purezza che se gli capita un occasione diventano talmente mascalzoni che t’ammollano le fregature meglio dei mascalzoni (diciamo) normali”. Ecco, in questo senso il personaggio di Gianni ben rappresenta le speranze disattese di chi voleva cambiare il mondo in meglio e che, invece, si è ritrovato a far parte di quegli stessi meccanismi ed ingranaggi che voleva smantellare.
Antonio, invece, che nel dopoguerra augurava a tutti i clienti del Re della mezza porzione future porzioni intere, si ritrova prima tradito dall’amico e dalla donna che ama, così come viene tradita quella speranza di riscatto sociale, lavorativo e politico. Trent’anni dopo si ritrova a consumare ancora mezze porzioni, ma almeno questa volta con la donna amata al suo fianco mentre organizza picchetti e proteste per l’istruzione dei propri figli e di quelli degli altri. Le sue delusioni politiche saranno mitigate, quindi, dall’affetto di Luciana.
Ci sono poi le delusioni ”cineculturali’ del personaggio di Nicola, sfuggito alla grettezza intellettuale della provincia campana. Approdato nella capitale, tuttavia, le sue speranze sull’ospitalità e l’apertura culturale della città saranno via via disattese. Culmine di questo processo di disgregazione delle illusioni è la sua partecipazione a Lascia o raddoppia, quando ad un passo dalla gloria le sue speranze saranno spazzate via da un cortocircuito di senso tra finzione e realtà (punto che sarà meglio analizzato più avanti).
Anche le due donne di C’eravamo tanto amati vanno inevitabilmente incontro alla disattesa delle proprie aspettative, seppur in modo decisamente diverso.
La figura di Luciana non può non far pensare a quella di Adriana di Io la conoscevo bene, film sceneggiato dallo stesso Scola. C’è lo stesso sostrato di sofferenza tra i due personaggi; entrambe approdano in città partendo dalla provincia, così come comune è la velleità artistica di avere un ruolo nel mondo del cinema nostrano. Entrambe si affidano a produttori ignobili con la speranza di essere introdotte nel settore, entrambe provano a porre termine alle proprie sofferenze con il suicidio, entrambe lavorano come mascherina al cinema. Nel caso non bastassero questi accostamenti in C’eravamo tanto amati c’è una vera citazione del film di Pietrangeli: le foto scattate ”per il regista Zampa” ritraggono il volto di Luciana solcato da scie di lacrime e rimmel, proprio come avviene ad Adriana. Quest’ultima, però, sarà uccisa dalle delusioni e dalle frustrazioni; Luciana, invece, riprende in mano la propria vita insieme ad Antonio, lasciandosi alle spalle le illusioni e le sofferenze passate.
C’è poi il personaggio più tragico del film: Elide. Ignorante come il padre, ma molto più buona e umana. All’inizio della sua vicenda è grassottella e priva di una sufficiente padronanza della lingua italiana. Per amore di Gianni, attraverso un rigido regime culturale-alimentare, diventa una donna bellissima e colta. Si trova, così, vittima di una cultura che non le appartiene, vittima della violenza borghese di un marito fantasma. Le sue speranze sono vane: neanche da morta riesce a smuovere il marito da una totale indifferenza nei suoi confronti.
In questo complesso viaggio di storie e di Storia i personaggi navigano tra i temi più cari e ricorrenti dell’autore romano: l’amicizia, l’amore, il tradimento affettivo, il tradimento delle speranze di una delle stagioni politiche più complesse della Storia d’Italia. Personaggi mossi dalla naturale e congenita aspirazione alla felicità, dalla voglia di cambiare in meglio la propria condizione e, a volte, quella degli altri. In C’eravamo tanto amati c’è, soprattutto nei tre caratteri maschili, una dura lotta con la propria coscienza e con le proprie aspirazioni, un forte attrito tra “ciò che siamo” e ciò “che che vorremmo essere”. Proprio a partire da questo contrasto si consumano le azioni che muovono i personaggi, il carburante del loro agire. Tuttavia, quando la parabola temporale e narrativa si avvia al termine, lo scarto decisivo e terribile diventa miseramente un altro: quello tra “ciò che volevamo essere” e “ciò che siamo diventati”. L’unico personaggio immutabile, l’unico carattere sempre uguale a se stesso e noncurante di apparire come ciò che non è, è proprio il personaggio con meno scrupoli, Romolo Catenacci. “Chi ha vinto la battaglia con la coscienza ha vinto la battaglia dell’esistenza”; rimasto solo con l’amato-odiato suocero, si congeda con protervia (dopo essere stato calato nel giardino con una gru, proprio come avveniva anni prima, durante i festeggiamenti del suo compleanno, con la porchetta), pronunciando un grido che suona un po’ come una minaccia: “Io nu’ moro! Io nu’ moro!”. Romolo Catenacci, come ogni uomo, morirà, ma rinasceranno sempre quelli come lui, rinascerà sempre il sistema che genera e si sostiene su quelli come lui.
Le ultime sequenze ci mostrano l’amarezza di un bilancio esistenziale che, per aspetti diversi, si rivela tragicamente fallimentare. Due sono i momenti chiave prima della sequenza finale (conclusione dell’incipit). Siamo giunti ormai negli anni ’70, il boom economico sta già mostrando il suo lato oscuro, attentati ed eversione scuotono il Paese. Nicola si ritrova in mezzo ad una platea, ascolta Vittorio De Sica che con il suo intervento rende indirettamente onore alla risposta controversa che gli costò, anni prima, più di due milioni di lire. Quando un amico lo spinge ad andare a parlare con il suo idolo, Nicola, lucido come mai prima, rifiuta malinconicamente: “Credevamo di cambiare il mondo, invece il mondo ha cambiato noi. Cose tristi, ammoscianti. Per me, e forse anche per lui.”
La stessa sconfortante consapevolezza risuona nelle perentorie parole di Gianni, durante l’ultima cena da “Mezzaporzione”: “La nostra generazione ha fatto schifo. Il futuro è passato e non ce ne siamo nemmeno accorti.” Scola approfondisce le tempeste interiori dei suoi personaggi, l’evolvere accidentato delle loro convinzioni e dei loro ideali. Eppure, dietro questi vissuti individuali è possibile scorgere la proiezione di complessi processi storici. Gianni ha barattato una felicità autentica con il potere e il denaro, divenendo nel corso degli anni la caricatura di sé stesso: cinico, indifferente all’amore che pure lo circondava, ha compiuto un doloroso compromesso con la propria coscienza politica e con i propri ideali. È diventato un uomo oscuro, affondato in grigi sensi di colpa. Antonio, comunista senza rivoluzione, “soccombe all’urto quotidiano con una realtà che non si lascia nemmeno scalfire dai suoi propositi di lotta”; la sua lotta di classe si ingrigisce progressivamente fino alla rassegnazione. Nicola, invece, rifugge ogni tipo di compromesso tra realtà e ideali. Paga a caro prezzo la sua fedeltà a sé stesso, ma le sue battaglie sono irreali, utopiche, il suo rigore eccessivo non lo impegna mai attivamente, destinandolo ad una avvilente marginalità. In un periodo in cui iniziava a consumarsi la progressiva marginalizzazione della figura dell’intellettuale, lo sguardo di Scola sembra profetico. Certo, Nicola è un intellettuale fin troppo scollato dalla realtà; eppure, il sogno di una scuola pubblica in cui anche il cinema possa essere una materia di insegnamento non era poi così male.
Si approda così alla conclusione “inconcludente” della pellicola. Davanti alla rivelazione della ricchezza del vecchio amico, Antonio non può che commentare con un “boh”, sul quale subito nasce una discussione con Nicola sul significato dell’interiezione. Non significa nulla, forse significa tutto, può essere una addirittura una minaccia. Forse, è solo la reazione davanti ad una curiosità non soddisfatta, o ancora una sospensione del giudizio (epochè), l’impossibilità di una netta, chiara, perentoria e definitiva valutazione. Forse ha fatto bene Gianni a tradire sé stesso e i suoi ideali, forse sono Antonio e Nicola quelli che, a furia di integralismi ideologici, si sono persi il meglio. In fondo, dopo trent’anni sono tutti delusi e disillusi. Solo che Gianni la sua infelicità l’annega in una piscina privata. O forse non è nemmeno questo. Forse non ci sono sufficienti elementi per formulare un giudizio, forse ci sono, ma sono troppo ambigui e contraddittori. Scola è un regista troppo raffinato per rinchiudersi in un messaggio morale pronto all’uso. E allora boh, appunto. Il suo cinema pone sempre dubbi, questioni aperte: “Il mio non è mai un cinema affermativo, programmatico, che dà risposte, semmai lascia qualche interrogativo, se il film è ben riuscito. Anche questo finale invece di esprimere un giudizio negativo sul borghese che ha tradito, sul fallimento dell’intellettuale, sul velleitarismo del proletariato, si sofferma sull’analisi che i due litigiosi amici fanno dell’interiezione “boh“.
Storia del cinema: tra teatro e televisione.
La stratificazione narrativa di C’eravamo tanto amati non si limita alla dialettica tra storie individuali e grande Storia politica. È presente, infatti, un altro importante piano narrativo con al centro un’altra storia: quella del cinema. Il film, inoltre, è dedicato alla memoria di Vittorio De Sica, regista amato da Scola e scomparso alcuni giorni dopo la fine delle riprese.
Il periodo giovanile passato da Scola nella redazione del Marc’Aurelio, dove lavorava come vignettista e battutista, ha certamente influenzato anche l’attività di sceneggiatore e regista. Quando qualche critico lo accusava di bozzettismo, infatti, Scola lo prendeva come un complimento. Seppur il personaggio di Nicola sia stato ispirato alla figura del critico cinematografico Camillo Marino, direttore della rivista Cinema Sud, è difficile non pensare ad una rubrica inventata da Scola durante gli anni al Marc’Aurelio: Potito il cinepatito. Il protagonista era un cinefilo folle, che si esprimeva esclusivamente con un linguaggio cinematografico: “Ieri carrellavo per via Veneto, quando, panoramicando, ho inquadrato una ragazza”.
La figura di Nicola è la prima a condurci all’interno della storia del cinema, attraverso l’indimenticabile scena nel cineforum di Nocera Inferiore. Dopo la proiezione di Ladri di biciclette si accende un forte dibattito. Alcuni notabili del luogo iniziano ad inveire contro il film di De Sica, reo di aver mostrato l’immagine di un’Italia stracciona e spietata che poco si confà alla ricostruzione in atto in quel periodo storico. Non sono parole casuali, soprattutto se pensiamo che critiche dello stesso tono furono mosse a De Sica da Andreotti dopo l’uscita di Umberto D.
Alcune scene più tardi, invece, ad essere omaggiata è La corazzata Potemkin, con una vera e propria rievocazione della scena cult della carrozzina che cade giù per la scalinata.
Le numerose citazioni dei film italiani (le immagini di L’eclisse, la ricostruzione del set di La dolce vita con le apparizioni di Mastroianni e Fellini) rappresentano momenti emblematici del passaggio del nostro tempo, i cambiamenti della società italiana attraverso l’evoluzione del cinema nostrano. La presenza del cinema addirittura diviene fisica durante la proiezione di Schiavo d’amore; qui, però, non si tratta di un vero e proprio omaggio, ma di un interessante espediente narrativo fornito dal doppiaggio mentale della pellicola da parte di Antonio e Luciana.
C’è poi un grande tributo ad una grande passione di Scola, il teatro: “Avevo sedici anni, ero patito di teatro e per permettermi di andare a vedere gli spettacoli facevo parte fissa della claque. […] Tra gli spettacoli che avevo visto con questo espediente c’era Strano interludio, nel quale i personaggi venivano isolati con questa tecnica della sospensione dell’azione” Scola, però, non si limita alla citazione, ma rende questo tipo di narrazione funzionale al racconto di C’eravamo tanto amati. La luce isola questo o quel personaggio, sguardo in macchina e rivelazioni confermano quel che lo spettatore può solo sospettare. La comunicazione tra personaggio e spettatore diventa, così, più personale e intima, e lo spettatore diventa un po’ confessore e un po’ psicologo. L’impianto teatrale è comune a molte pellicole scritte e dirette da Scola, basti pensare a La serata più bella della mia vita, La cena, La famiglia, Una giornata particolare, dove pochi personaggi si muovono in luoghi circoscritti e ambientazioni tipiche dei Kammerspiel. Letteratura e teatro sono ambiti in cui Scola pesca a piene mani soluzioni narrative e stilistiche, come opportunamente rilevato da Antonio Bertini: “Se Scola parla di flashback lo fa in termini letterari, non filmici. Se illustra la sua tecnica di direzione degli attori la vede in modo teatrale, non cinematografico”. Questo complesso di suggestioni extra-cinematografiche, però, è perfettamente integrato e metabolizzato nel tessuto filmico delle sue opere. Sono suggestioni che non scadono mai nel manierismo, ma risultano sempre finalizzate ad un arricchimento delle possibilità espressive e narrative.
Le incursioni extra-cinematografiche, tuttavia, non terminano qui. In C’eravamo tanto amati, ad un certo punto, irrompe la televisione, mezzo mediatico che ha cambiato per sempre le forme della comunicazione, creando una nuova tipologia di spettatore, differente sia da quello teatrale che da quello cinematografico. L’utilizzo del mezzo televisivo, però, non svolge solo una funzione narrativa in questo film, ma pone in maniera esemplare una questione concettuale intorno ai differenti meccanismi di rappresentazione delle due forme di comunicazione. Nicola partecipa a Lascia o raddoppia, programma condotto da Mike Bongiorno, in qualità di esperto di storia del cinema italiano. Man mano che la partecipazione al programma prosegue, la reputazione di Nicola riprende vertiginosamente quota; i familiari ritrovano quell’affetto e quel rispetto che non avevano mai avuto nei suoi confronti, gli stessi notabili del suo paese di origine, che anni prima lo avevano umiliato, si mostrano felici sostenitori della sua esperienza televisiva. La partecipazione ad un evento televisivo è capace di cancellare ogni rancore, fa perdonare ogni vero o presunto peccato, fa germogliare il rispetto e l’ammirazione anche in coloro che non ne avevano mai provato, a patto, però, che la partecipazione si concluda in maniera trionfante. Non ci sarà trionfo alcuno per Nicola: alla domanda sul finale di Ladri di biciclette (Perché Enzo Staiola piange nell’ultima scena?) risponde riferendo il modo escogitato dal regista per far piangere il giovane attore, mentre l’ambigua domanda si riferiva alla motivazione narrativa che ha portato al pianto del personaggio nel film (Bruno Ricci). In questo cortocircuito di senso, si palesa l’incapacità della televisione di comprendere la dialettica tra finzione e realtà operata dal cinema. La rappresentazione della realtà nel cinema avviene a partire da un utilizzo cosciente di una finzione programmata. L’attore, che ha un nome e un cognome, interpreta un personaggio che ha un altro nome e un altro cognome: quando guardiamo Gianni Perego sappiamo di avere davanti Gassman nel ruolo di Gianni, ma come spettatori accettiamo la finzione, così ci dimentichiamo di Gassman e cerchiamo di avere davanti solo Gianni Perego. Attraverso la finzione l’autore o il regista ci offre una rappresentazione di realtà, cioè una visione, uno spiraglio di realtà, mai la realtà oggettiva in quanto tale. Una visione che, seppur parziale e relativa alla personalità dell’autore, è sempre ammantata di autenticità. La televisione, invece, non conosce e non comprende questa differenza. In televisione si entra con il proprio nome e cognome, il punto di partenza è più vicino al reale, ma il risultato appare molto più finto e preparato rispetto a quello del cinema. Basti pensare alla degenerazione del reality: si pretende di dare allo spettatore il massimo grado di realtà, ma nel migliore dei casi si hanno personaggi che interpretano sé stessi consapevoli di trovarsi davanti a delle telecamere, con un risultato decisamente più finto. Nicola Palumbo, uomo di cinema, non può che soccombere davanti all’ignoranza televisiva del meccanismo di riproduzione della realtà attraverso la finzione.
C’eravamo tanto amati e la Commedia all’italiana.
È il 1959 quando al Festival del cinema di Venezia si aggiudicano il Leone ex-aequo Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini e La grande guerra di Mario Monicelli. È un momento cruciale, fortemente simbolico per il cinema italiano; si tratta di una sorta di passaggio di testimone tra uno dei più grandi esponenti del Neorealismo e quello che sarebbe diventato uno dei grandi nomi della Commedia all’italiana.
Si potrebbe discutere a lungo sul rapporto che lega i due generi e le rispettive visioni del cinema e dell’esistenza, ma in questa sede ci limitiamo a segnalare quello che, forse, è l’aspetto più evidente. Se la cinematografia neorealista, figlia immediata della guerra e del dopoguerra, si concentra sull’hic et nunc, cioè sulla stretta contemporaneità di un Paese stravolto e immerso nelle macerie, la Commedia all’italiana volge lo sguardo su un’intera generazione e sul rapporto che questa ha con i primi anni di vero benessere, con il boom economico, con l’evoluzione della società italiana di quel periodo a partire dai mutamenti di mentalità, sessualità e costume, sostituendo la tragicità del mondo con un punto di vista decisamente più leggero.
In questo grande contenitore si inserisce anche l’opera di un regista come Scola, il quale definisce la Commedia all’italiana come ”figlia degenere del Neorealismo, una sorta di reazione un po’ reazionaria, in quanto nata come pacificatoria testimone di un’Italia grassoccia e paesana dai pochi riferimenti con la realtà”. La Commedia all’italiana, quindi, nasce in parte come reazione ai toni drammatici del Neorealismo, producendo nella sua prima fase film dal tono evasivo e conciliante. A poco a poco, però, grazie a registi come Monicelli, Risi, Fellini e Scola inizia una fase dallo sguardo più critico nei confronti della società e della sua evoluzione. Diventata più provocatoria nei confronti di un Paese un po’ bigotto, sfatando i tabù della famiglia, del sesso, delle istituzioni, trasformandosi in una vera e propria tendenza, in un modo di percepire la realtà e di esprimerla con canoni comici. Ogni regista, all’interno di questa tendenza, ha poi sviluppato la propria poetica e propri toni espressivi.
Un film come C’eravamo tanto amati ci permette di cogliere molti degli aspetti propri di Scola e di individuare il suo particolare apporto innovativo al genere d’appartenenza.
Come già avvenuto in Dramma della gelosia, la narrazione non si articola sulle vicende di un unico personaggio, ma si sviluppa su una coralità di posizioni, visioni e intenzioni. Il piano narrativo si dipana in maniera per lo più parallela sulle vicende dei tre personaggi maschili, non utilizzando una tecnica di racconto piana, consequenziale e ordinata nel tempo. In questo racconto polifonico ciò che emerge con chiarezza è un aspetto che è diventato una delle cifre stilistiche più importanti della filmografia di Scola: l’assoluto equilibrio tra tono comico e drammatico, tra gli aspetti farseschi e quelli tragici dell’esistenza dei personaggi e del loro rapporto burrascoso con il mondo che li circonda. In C’eravamo tanto amati sono molte le battute e i momenti che strappano una genuina risata: lo strabismo inaspettato del cliente liberale in trattoria; la scena del cineforum che si conclude con il comico grido fuoricampo del moderatore, avvilito perché ”non si è parlato dello specifico filmico”; il generale che vuole assolutamente salutare il grande regista Fellini, salvo poi scambiarlo per Rossellini; le storpiature linguistiche di Romolo Catenacci e della figlia. Scene che si amalgamano perfettamente con la malinconia e il dolore di fondo che pervade tutta l’opera.
Con Scola si introduce nella Commedia all’italiana anche una riflessione sul tempo e sulla Storia, elemento che riapparirà fortemente in molte altre pellicole del regista. L’unico antecedente al quale C’eravamo tanto amati può essere accostato è un film di Risi uscito nel 1961, Una vita difficile. Anche qui si compie un viaggio temporale che parte dalla Resistenza e arriva fino all’inizio degli anni Sessanta; anche qui ci si interroga su un passato di speranze e su un presente gravato dalla delusione degli ideali ingrigiti di una generazione che voleva cambiare il mondo. Nel film di Scola, però, c’è meno cinismo e più autocritica generazionale, i toni sono più malinconici e crepuscolari. Il pedinamento psicologico dei personaggi penetra all’interno dei loro sentimenti e dei loro tumulti, inducendo lo spettatore a soffrire con loro. Ogni scelta registica è compiuta sempre in funzione del racconto, ogni movimento della macchina da presa tende ad aggiungere elementi all’atmosfera, all’ambiente e alla psicologia dei personaggi.
Con C’eravamo tanto amati la Commedia all’italiana raggiunge nuove vette di sensibilità e di commistione tra molteplici registri linguistici e stilistici, costituendo uno dei titoli più importanti e amati della cinematografia nostrana.
(STEFANO SESSA)