Blaxploitation 2 – Lost Pieces

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Sono trascorsi 5 anni dalla prima playlist sulla blaxploitation (probabilmente in rete una tra le cose più complete in italiano sull’argomento) e i tempi sembravano maturi per un’appendice. Nel frattempo Moonlight ha vinto un Oscar come miglior film, come Spike Lee per la sceneggiatura di BlackKklansman (nella quale non manca di stigmatizzare proprio il filone/genere di cui parliamo) e Jordan Peele per quella di Scappa – Get Out. Ma non c’è ruffianeria nella scelta di redigere il primo sequel della storia (breve) del blog di Pigrecoemme, né maldestro tentativo di accodarsi al Black Lives Matter. Chi scrive è stato molto critico sia nei confronti di Moonlight sia di Black Panther. Anzi, proprio quest’ultimo ha suffragato l’idea che dalla blaxploitation non si sia mai venuti fuori solo che ora la si fa coi soldi della Disney. Perché è di quello che si tratta, se anche Anthony Mackie (che nel MCU interpreta Falcon) ha dichiarato: “Mi dà fastidio aver interpretato sette film Marvel in cui ogni produttore, ogni regista, ogni stuntman, ogni costumista, ogni singola persona sul set era bianca. Ma poi hanno fatto Black Panther con un regista nero, un produttore nero, una costumista nera, un coreografo degli stunt nero. Questo fatto è più razzista di ogni altra cosa perché trasmetti l’idea che puoi ingaggiare persone nere solo per un film su neri. Stai dicendo che non sono abbastanza bravi quando hai un cast per lo più bianco?”. La blaxploitation di cui parliamo noi è quella classica, quella seventies, e ci siamo sforzati di recuperare titoli trascurati nella prima playlist e perle indiscutibili. Buona lettura.

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1 – Sugar Hill di Paul Maslansky
Dopo la notte, ma prima dell’alba dei morti viventi di Romero, tocca a Paul Maslansky recuperare la tradizione vodoo degli zombi, quella descritta da William Seabrook nel suo libro The Magic Island: “Gli occhi erano il peggio. Non era la mia immaginazione. In verità erano come gli occhi di un morto, fissi, sfocati, incapaci di vedere. L’intero volto, per quel che importa, era già messo abbastanza male. Era assente, come se non ci fosse niente dietro. Sembrava non solo senza espressione, ma incapace di averne una”. In questa come in altre pubblicazioni (nonché nella precedente produzione cinematografica, da L’isola degli zombies del 1932 a Ho camminato con uno zombie del 1943), si precisa che gli zombi sono esseri umani vivi resi passivi da un sortilegio (più realisticamente da una neurotossina presente nella polvere somministrata loro durante il rito). In Sugar Hill, invece, in una sorta di commistione tra tradizione e nuovo immaginario post George A.Romero, il vodoo richiama sulla terra proprio i morti, anzi gli schiavi morti nelle piantagioni a causa delle vessazioni dei “signori” bianchi. A fare da Cicerone c’è il Baron Samedi, figura classica del vodoo, che si vede anche in 007 – Vivi e lascia morire, non a caso il Bond movie che maggiormente fu influenzato dalla moda blaxploitation. Nonostante lo scopo sia il lucro più bieco, il film riesce comunque a mettere a segno la stoccata politica cogli schiavi trapassati che diventano strumento di vendetta della protagonista (Marki Bey) contro i nuovi schiavisti. Nei panni di Mama Maitresse, la medium che mette in moto tutto, troviamo Zara Culley meglio nota come Mamma Jefferson della nota sitcom I Jefferson.

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2 – Ganja & Hess di Bill Gunn
Nel 1972 Samuel Z. Arkoff aveva fatto bei dollaroni con Blacula e la produzione chiese a Bill Gunn di realizzare qualcosa di simile. Ma Bill Gunn non aveva niente a che fare con la blaxploitation e il suo Ganja & Hess è più dalle parti di Sweet Sweetback’s Baadasssss Song di Melvin Van Peebles. Non a caso vinse il Premio della Critica al Festival di Cannes del 1973. Il riconoscimento, tuttavia, non si ripercosse sul successo di pubblico: la Kelly/Jordan Enterprises lo distribuì nel 1973, ma fu un tremendo fiasco. La Heritage Enterprises lo tagliò e aggiunse circa 15 minuti di found footage da un altro film distribuendolo un anno dopo col titolo Blood Couple spacciandolo per un blaxploitation movie classico. Infine, nel 1975, la Goldstone lo rimise in circolazione nello stesso cut di Blood Couple, ma rititolandolo Double Possession. In tutto questo, Bill Gunn, artista a tutto tondo e poco interessato a ingaggiare battaglie legali con la produzione, depositò una copia originale del film presso il Museo d’Arte Moderna. Ragion per cui oggi siamo in grado di vederlo nella sua versione originaria. Nel ruolo di Hess c’è Duane Jones ovvero l’iconico protagonista nero di La notte dei morti viventi di George A. Romero e le musiche del film sono di Sam L. Waymon, fratello di Nina Simone, che compare anche nei panni del reverendo Luther Williams. Ganja & Hess parla, già nel 1973, di identità nera, di imborghesimento black (basti vedere come i due protagonisti trattano il domestico Archie: come due “padroni” bianchi). Insomma, Jordan Peele non è arrivato primo. E neanche Spike Lee che nel 2015, infatti, organizza un crowdfunding per realizzarne un remake. Da Sweet Blood of Jesus (che trovate su Amazon Prime Video) ricalca abbastanza fedelmente l’intreccio del prototipo prendendosi alcune licenze (la più vistosa: il primo sacrificio di Ganja non è un muscoloso e aitante uomo, ma una donna) e, forse anche in forza dei tempi, decisamente più exploitation dell’originale. Sicuramente Spike Lee, seppur autore, è regista più tradizionale che rende narrativo quel che in Gunn era arty e concettuale.

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3 – Slaughter uomo mitra di Jack Starrett
Secondo Darius James (in That’s Blaxploitation!: Roots of the Baadasssss ‘Tude – Rated X by an All-Whyte Jury) il primo film che rispetta tutti i canoni dell’exploitation black non è Sweetback’s Baadasssss Song, troppo artistico e d’autore, ma Slaughter diretto da Jack Starrett (successivamente al timone anche di Cleopatra Jones: licenza di uccidere) e prodotto dallo scaltro Samuel Z. Arkoff con la sua AIP (American International Pictures). Il protagonista è Jim Brown, running back dei Cleveland Browns dal 1957 al 1965 e poi attore (cominciando dalla serie A di Quella sporca dozzina, Base artica zebra, I 6 della grande rapina per poi diventare star della blaxploitation). Darius James ha tutti i motivi per ritenere Slaughter il prototipo della blaxploitation: la trama è ridotta all’osso, il protagonista non si capisce che lavoro faccia (è un ex berretto verde, nero “e questa è una notizia” afferma una finta giornalista nei primi minuti del film). Si può definire una sorta di avventuriero che persegue una vendetta personale e incidentalmente si trova a lavorare con i Federali contro un nemico comune: il mafioso Mario Felice. Anche se il vero nemico è Dominick Hoffo interpetato da Rip Torn. Scene d’azione, pochi fronzoli, sesso interrazziale (con Stella Stevens) e grandangoli che irrompono piuttosto gratuitamente nel découpage. Il successo fu tale che appena un anno dopo la AIP confezionò il sequel affidandolo al più solido Gordon Douglas (regista di Assalto alla terra, quello con le formiche giganti). Slaughter’s Big Rip-Off (in Italia giunto col titolo Un duro al servizio della polizia) approfitta di un evidente budget più alto (ma non di tanto) e di una maggior professionalità dietro la mdp per guadagnarne in efficacia nella parte action, ma non nel plot. La sinossi, infatti, è la solita riga di trama scritta su un tovagliolino sporco. Le musiche del sequel, imprescindibili nella blaxploitation, sono di James Brown.

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4 – Dolemite di Rudy Ray Moore/Dolemite is my name di Craig Bewer
Prima di Dolemite is My Name su Netflix, forse l’unico altro biopic sulla blaxploitation è Baadasssss! How to Get the Man’s Foot Outta Your Ass con cui Mario Van Peebles, nel 2003, ricostruiva le vicende produttive di Sweetback’s Baadasssss Song del padre Melvin. La storia di Rudy Ray Moore, comico afroamericano diventato celebre per il suo personaggio di Dolemite, un pimp che parla in rima (negli anni ’80 gli fu riconosciuto il titolo di “Padrino del rap”), nelle mani di Scott Alexander e Larry Karaszewski (gli sceneggiatori di Ed Wood, Larry Flint, Man on the Moon, Big Eyes, American Crime Story) diventa un emblematico viaggio dell’eroe loser che ce la fa con la forza della volontà e contro tutti (finanche contro la AIP che con la blaxploitation ci aveva guadagnato, ma a quel tempo cercava di rifarsi un’immagine). Del resto, Dolemite non trova spazio neanche nell’imprescindibile libro di Darius James dove si spiega bene cosa fosse il pimp (e si cita Pimp: The Story of My Life firmato da Iceberg Slim, al secolo Robert Beck, che fu davvero un protettore prima di ritirarsi ed essere riconosciuto da molti quale iniziatore della Street Lit. Irwine Welsh ha detto di lui: “Iceberg Slim ha fatto per il pimp quello che Jean Genet ha fatto per l’omosessuale e ladro e William Burroughs ha fatto per il tossico: ne ha articolato i pensieri e i sentimenti, vivendoli di persona. La grande differenza è che quelli erano bianchi“).
Per cui Dolemite is My Name riempie un vuoto e aggiunge un nuovo capitolo al puzzle dei perdenti di successo che Alexander & Karaszewski stanno costruendo negli anni. Grazie a Tim Burton, Milos Forman, Ryan Murphy e in questo caso a un Eddie Murphy che dimostra quanto il cinema, in fondo, sia stato ingeneroso con lui.
Rudy Ray Moore sarebbe tornato nei panni di Dolemite in The Human Tornado e come protagonista in altre due pellicole della fase calante della blaxploitation: Petey Wheatstraw e Disco Godfather.

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5 – Amazing Grace di Stan Lathan
Nel 1974 l’aria è cambiata. Apparentemente. MGM e United Artists uniscono le loro forze e i loro budget per produrre Amazing Grace diretto dal giovane afroamericano Stan Lathan (che poi è diventato un regista televisivo affidabile da Sanford & Son a Hill Street fino agli show di Cedric The Entertainer e soprattutto di Dave Chappelle). La protagonista di Amazing Grace è un mito della cultura black (per nulla conosciuta in Italia): Moms Mabley, forse la prima e, per tanto tempo l’unica, stand-up comedian donna e afroamericana. Nel 2013 Whoopy Goldberg ha diretto per la HBO un doc su di lei (Moms Mabley: I Got Somethin’ to Tell You) e viene citata anche in The Marvelous Mrs. Maisel. Amazing Grace è una commedia ed è decisamente un’opera politica. Grace Taesdale Grimes non è una mammy (semmai la impersona per poter sottrarre documenti importanti al sindaco corrotto), aiuta il suo nuovo vicino a vincere le elezioni a sindaco di Baltimora e soprattutto a sottrarsi al gioco del partito repubblicano che vuole usarlo solo per togliere voti ai liberali perché “dopo tutti i sit-in in cui non ti sei seduto, dopo tutto quello che hai fatto per l’uomo bianco, non ti lascerà fare quello che vuoi fare“. Grace arringa i giovani universitari in un’aula magna sicché anche il prologo in treno (con uno scontro generazionale tra afroamericani) che pareva un semplice diversivo assume un significato importante. Welton J. Waters diventa sindaco e Grace (o Moms Mabley) alla fine guarda in macchina e annuncia allo spettatore che alla Casa Bianca hanno bisogno di lei. Ce ne vorrà di tempo, ma le immagini del sindaco e della moglie Creola che salutano i cittadini, viste a posteriori, fanno pensare a Barack e Michelle Obama.

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6 – Devil’s Express di Barry Rosen
Della blax fu ne abbiamo parlato anche nella prima playlist dedicata alla blaxploitation. Si tratta di una costola del filone la cui star è Jim Kelly. L’unica perché gli altri sono dimenticabili e dimenticati. Come Warhawk Tanzania, protagonista di sole due pellicole, Black Force e questo Devil’s Express che è talmente brutto da fare il giro e diventare sublime. Il raschiamento del fondo di un genere ormai alla frutta nel 1976 prevede guerra tra gang di neri e cinesi (Black Spades e Red Dragons, infatti è noto anche col titolo alternativo Gang Wars), un prologo ambientato in Cina nel 200 a.C. con una mattanza girata talmente male che si vede schizzare il sangue dalla lama prima che abbia colpito, la sottrazione di un amuleto da parte di un amico/allievo del protagonista che si chiama Rodan come il mostro alato del film di Ishirō Honda, un demone che si impossessa del corpo di un cinese che arriva a New York con degli occhi dipinti palesemente sulle palpebre chiuse e che poi si installa nella metropolitana, lunghe sequenze con musica a coprire i dialoghi (forse troppo brutti, forse non registrati), il protagonista e la sua donna che fanno colazione mangiando uova e pancetta con le bacchette per far capire che amano la cultura orientale (ma fino a un certo punto), scontri che sembrano dimostrazioni a neofiti delle tecniche di arti marziali per quanto sono impacciati e lenti, un vecchio saggio cinese interpretato, non si capisce perché, da un attore giovane con della creta messa male in faccia e, per concludere, il redde rationem conclusivo tra Luke e il demone che è un mostro della laguna nera fatto cogli scarti di cartapesta. Da non perdere.

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7 – Which Way Is Up? di Michael Schultz
Di Which Way Is Up? Richard Pryor non parla nemmeno nella sua autobiografia Che cazzo ci faccio io qui? pubblicata in Italia da Sagoma Comedy. Si tratta, incredibile a dirsi, del remake americano di Mimì metallurgico ferito nell’onore di Lina Wertmüller, in cui Pryor interpreta tre ruoli (Leroy Jones, suo padre Rufus Jones e il reverendo Lenox Thomas che qui ha il ruolo rivestito nell’originale dal brigadiere Amilcare Finocchiaro). Dietro la mdp Michael Schultz già al timone, con Pryor, di Car Wash e di Il circuito della paura (biopic su Wendell Scott, primo pilota nero del circuito Nascar) dove sostituì Melvin Van Peebles che protestò per la esigua presenza di neri nella troupe senza la solidarietà di Pryor. Il che ci riporta al tema del film perché, più o meno come l’originale, Leroy diventa bandiera della protesta sindacale (casualmente), ma ben presto trova più conveniente stare al soldo del “padrone” bianco, del capitalismo tentacolare (un anello indossato dagli accoliti qui sta ai nei di Turi Ferro che nel film italiano interpreta tutti i cugini Tricarico). Combattuto tra la conquista di maggiori diritti, un’idea rivoluzionaria di identità razziale e di genere, e atavici costrutti mentali del maschio nero, Leroy verrà abbandonato da tutti come Mimì, ma mentre per quest’ultimo ci sarà la solitudine totale ben rappresentata dal Campo Lungo nella cava dove cade disperato, il primo troverà un motivo di riscatto rispondendo per le rime al titolare della Agrico e avviandosi lungo la strada verso un futuro ignoto, ma migliore.

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8 – Emma Mae di Jamaa Fanaka
Lo avrete letto nella prima playlist: nella blaxploitation Pam Grier non ha avuto rivali. Cleopatra Jones e T.N.T. Jackson non hanno inciso quanto Foxy Brown o Coffy. Men che meno ha potuto fare qualcosa Lola Falana (molto nota anche in Italia dove apparve in tv, in un paio di musicarelli, Stasera mi butto e Quando dico che ti amo, e, diretta da Siro Marcellini, fu addirittura protagonista di uno spaghetti-western, Lola Colt), interprete principale di Lady Cocoa, perché il personaggio del titolo è una pupa del gangster che intende testimoniare contro di lui, quindi una vittima, un bersaglio da proteggere a differenza delle donne forti dei film citati. Lady Cocoa è inguardabile per un’ora, poi negli ultimi trenta minuti si riprende, tra twist narrativi e azione scatenata (e con una coppia di taciturni killer che sembra arrivare da un film mai fatto dei Coen), ma il lavoro di Matt Cimber non ha lasciato tracce come quasi tutta la sua filmografia. A provare a fare qualcosa di diverso è Jamaa Fanaka nel 1976. Emma Mae aspira a essere spaccato sociale, ma la parabola che porta la protagonista eponima a trasformarsi da ingenua ragazza di campagna a imprenditrice, rapinatrice e agit prop è del tutto implausibile per quanto è rapida, priva di approfondimento psicologico e gratuita. Jerry Hayes (questa risulta la sua unica prova da attrice) mena e dà calci, ma il momento migliore è quando, a finire sotto i suoi colpi, è il nero che l’ha illusa e ingannata. Lì Black Power e Girl Power confluiscono in un unico personaggio (infatti è noto anche col titolo Black Sister Revenge). Troppo poco, comunque, per l’ambizione evidente della pellicola.

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9 – Boss Nigger di Jack Arnold
Gli esempi di western blaxploitationi si contano sulle dita di una mano più uno e in tutti c’è Fred Williamson: a partire da Libero di crepare (e relativo seguito The Soul of Nigger Charlie) fino a Joshua passando per Adiós Amigo (che interpreta al fianco di Richard Pryor e dirige anche) e La parola di un fuorilegge… è legge! diretto da Antonio Margheriti. Williamson ha condiviso con altri il ruolo di icona del filone, ma ha detenuto da solo lo scettro di questa costola. Boss Nigger, tra l’altro, è il primo film che sceneggia lasciando la direzione alla mano esperta di Jack Arnold (sì proprio lui: il regista di Il mostro della laguna nera) conosciuto sul set di Con tanti cari… cadaveri detective Stone. Boss Nigger solidarizza con gli ultimi, coi messicani, perché, come recita il testo della canzone che accompagna i titoli, “Black man in a white man’s town.
He’s got trouble
“. Si autoproclama sceriffo e insieme col sodale Amos (D’Urville Martin, frequente partner cinematografico di Williamson) instaura una legge nuova, in base alla quale dire “negro” ti costa 20 dollari di multa o 4 giorni di carcere. La pellicola ha un andamento finanche picaresco, ma l’epilogo è tragico e disilluso (siamo nel 1974: il western, tra variante spaghetti e rivisitazione New Hollywood, ha perso quella sua aura mitica) perché la vittoria di Boss Nigger è davvero amara. E stavolta le parole della canzone, “He’s so bad.
They call him boss; he’s the boss; boss nigga
“, fanno quasi da crudele contrappunto a quanto effettivamente avvenuto.

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10 – The Black Gestapo di Lee Frost/Black Samson di Charles Bail
La Trinità che, secondo Darius James, negli anni ’70 sostituì quella classica Coon-Tom-Mammy, fu quella delle tre P: Pusher-Pimp-Panther. Il terzo elemento è quello che combatte per la dignità dei neri e la conquista di maggiori diritti. La Grace di Amazing Grace, come detto, si traveste da Mammy, ma in fondo è una vera Panther. Chiudiamo questa seconda playlist dedicata alla blaxploitation con due titoli i quali trattano in modo diverso le rivendicazioni del Black Power. In The Black Gestapo una frangia dell’Esercito Popolare del Generale Ahmed (“Nessuno ti rispetterà se non ti rispetti“, “Martin Luther King aveva un sogno ed è stato fatto saltare nell’eternità con lui“), comandata dall’ambiguo Colonnello Kojah, stanca dei soprusi e delle estorsioni della mafia comandata da Vince (lo stesso regista), decide di abbandonare la strada pacifica e usare la violenza. Ma il potere dà alla testa e questa forza di polizia finisce semplicemente col sostituirsi alla mafia, perpetrando gli stessi crimini, ma con l’aggravante di farlo ai danni dei fratelli neri. Anche il Generale Ahmed disseppellirà l’ascia di guerra per porre fine alla vergogna. The Black Gestapo vive dell’ambiguità del filone: sembra voler mettere sul tavolo il tema della degenerazione dell’esercizio del potere, ma in fondo mira soltanto all’esibizione di sesso e violenza (che contempla anche un’evirazione nella vasca da bagno che anticipa quella della Jennifer di I Spit on Your Grave di Meir Zarchi) come ogni prodotto exploitation. Del resto, Lee Frost è uno dei nomi di punta del genere in ogni sua diramazione: come R.L.Frost lo ricordiamo artefice di Camp 7 Lager femminile, un WIP (Women in Prison) naziploitation diventato di culto. E dalla naziploitation alla black naziploitation (compreso accostamento incosciente tra Hitler e l’apparizione del titolo) è un attimo.

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Black Samson, invece, è distribuito dalla Warner. E si nota. Siamo sempre nell’ambito della serie B e di investimenti limitati, ma anche ben lontani dalla sciatteria e dalla miseria di The Black Gestapo. Basterebbe la scena finale della rivolta contro i mafiosi (il tema della guerra tra neri e mafiosi italoamericani è ricorrente nella blaxploitation e sicuramente Noah Hawley ne ha tenuto conto nell’ideazione della quarta stagione di Fargo), spettacolare e certamente dispendiosa, per capire che ci troviamo nello stesso fottuto sport, ma in una serie maggiore. Samson (Rockne Tarkington) è un Panther senza macchia che, come il giudice biblico da cui prende il nome, cerca di mantenere la pace nel suo quartiere cacciando i Filistei rappresentati dai mafiosi che hanno interesse a gestire affari sporchi, ma anche “fratelli” finiti sulla cattiva strada (Arthur che, invece, della Trinità è il Pusher). Samson è un Panther e ha un leone nel suo bar frequentatissimo. Quando la sua nemesi Johnny Nappa gli farà esplodere il locale e rapirà la sua donna, Samson capirà che non è solo e la gente del suo quartiere comprenderà che l’unione fa la forza. Che il colpo finale a Johnny Nappa, nello scontro conclusivo, sia assestato da Samson con una catena, invece che col bastone con cui si accompagna solitamente, è un segno della riscossa nera. E un auspicio.

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