Acrid – Il nuovo cerchio iraniano

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Una volta il cinema iraniano riempiva le sale anche in Italia, ma son lontani i tempi in cui si condividevano le poltrone con decine di persone per un Kiarostami o un Panahi. Eppure, proprio questo cinema, non è mai stato vivo come nell’ultimo lustro.

Nel 2011 Una separazione è stato il primo film iraniano a vincere l’Orso d’oroBerlino, un premio non regalato, ma molto meritato che ha, vieppiù, rivelato al mondo intero il talento di Asghar Farhadi. Ora tocca ad Acrid di Kiarash Asadizade approdare nelle sale italiane, l’11 giugno, grazie ad una coraggiosa piccola distribuzione indipendente, la Imagica Original di Aldo Ciolfi Giulio Giuliani. C’è da ringraziare davvero questi due impavidi difensori del cinema di qualità, poco conosciuto ed in lingua originale, perché colossi ben più accreditati hanno lasciato che il film attraversasse l’ottava edizione del Festival di Roma (nel 2013), nella quale si aggiudicava il premio per il miglior cast emergente, senza lasciar traccia. Asadizade, in qualche modo, raccoglie l’eredità proprio di Panahi e del suo Il cerchio che nel 2000 vinse il Leone d’oro Venezia. Anche qui storie di donne, anche qui un arco narrativo circolare, sebbene le storie, quattro, facciano quasi pensare ad una quadratura del cerchio. Ed è dal confronto tra le due pellicole che possono nascere le riflessioni più interessanti. Il cerchio di Panahi serviva anche a metaforizzare lo spazio chiuso, la trappola, la prigione in cui le donne iraniane si trovavano a dover vivere dalla nascita (il film cominciava proprio con un parto) alla morte. Tre episodi che chiudevano i conti, perché da lì non si scappava. L’Iran di Asadizade sembra più emancipato, le donne guidano SUV, passeggiano da sole, tengono testa a mariti apatici o infedeli, anche se, strisciante, sotto l’apparente emancipazione e l’apparente progressismo maschile, si fa strada una mentalità permanentemente retrograda (il ginecologo che preferisce segretarie nubili). Un Iran, quello di Ahmadinejad, in cui la condizione femminile non parrebbe così sacrificata come spesso la cronaca racconta. In Acrid non abbiamo donne sottomesse o remissive, anzi. Di cosa si tratta? Di propaganda? Ad uno sguardo più attento, però, non può sfuggire un altro dato. Lungi dall’essere un ritratto esotico di un paese da guardare con occhi da colonialisti illuminati, il film di Asadizade più che mostrarci quanti passi avanti abbia fatto l’Iran, ci dimostra quanti ancora ne dobbiamo fare noi occidentali. Perché la condizione di queste donne, mortificate anche e comunque nella loro indipendenza emotiva, non è poi così lontana da quella delle nostre connazionali.

 

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