I 10 migliori film del 2016

Parlare dei 10 migliori film di un anno comincia ad essere un esercizio complicato. occorre precisare che ci riferiamo all’anno solare perché le stagioni cinematografiche abbracciano un periodo corrispondente a quello delle scuole e, nonostante questo, quali si possono considerare film dell’anno? Quelli distribuiti in sala? E quelli visti nei festival e non distribuiti? E quelli disponibili direttamente sulle piattaforme on line? Senza contare che una lista del genere vivrà della parzialità delle visioni del suo estensore che non potrà mai aver visto tutto, per collocazione geografica e tempo. Toccherà prima o poi cambiare nome alla playlist, titolarla “Le 10 migliori visioni del …“. Magari già dal 2017. Detto questo, ecco la playlist del 2016 la quale, ve ne accorgerete da soli, presenta una prevalenza di storie non “al”, ma “sul” femminino. Ci sembra un buon segno.

1 – Carol di Todd Haynes

Inquadrature. Questa è la parola chiave per Carol. A differenza dell’algido esercizio di stile di Lontano dal Paradiso (in cui Haynes ricostruiva il melò à la Douglas Sirk esplicitandone i temi sottesi all’epoca), qui Haynes ricostruisce/inquadra un’epoca. Quanti vetri opachi (di vetrine, di auto sotto la pioggia battente, di occhiali appannati come quelli del commesso viaggiatore che incontra Terry fuori dal motel) ad inquadrare primi piani (a significare identità sfuggenti, indefinite, in formazione); quanti stipiti (di porte e finestre) di case ed appartamenti borghesi ad incorniciare, costringere, intrappolare le (vite delle) protagoniste; uno specchio/schermo nella camera, in cui guardarsi prima di capitolare (a Waterloo) e cedere alla propria natura che la società vuole resti soffocata; le foto di Terry che non vuole restare al buio e poi l’ultima, stupenda, inquadratura: anche qui, come in Revenant di Iñárritu, uno sguardo in macchina che pone noi spettatori di fronte a quello specchio che, per quanto possiamo negarlo, è lo schermo di un cinema. Perché Carol, forse, siamo un po’ tutti noi.

2 – The VVitch di Robert Eggers

Solo chi è così superficiale da annoverare Il demonio, film di Brunello Rondi, tra gli horror può fare lo stesso errore con The VVitch. Come quello era trasposizione su schermo degli studi antropologici di Ernesto De Martino, questo vien fuori da documenti (diari, lettere) che il regista Robert Eggers ha consultato affinché il suo film, grazie ad un rigore che ha imposto anche l’uso di un inglese arcaico (dei primi coloni), costumi appositamente cuciti con tessuti dell’epoca e ambienti tirati su col legno utilizzato dai coloni stessi, luci diegetiche à la Barry Lindon, fosse soprattutto un saggio su un’epoca in cui ogni cosa (la sessualità, la pubertà femminile, allucinazioni generate da inedia o da grano malato) veniva ricondotta a Dio o a Satana. Un’epoca passata?

3 – Julieta di Pedro Almodóvar

Ci vuole una perdita perché ci possa essere una conquista. Alla morte dell’uomo sul treno segue l’amplesso tra Julieta e Xoan, alla morte della moglie di quest’ultimo l’arrivo di Julieta e così via fino alla fine quando anche la ri-conquista del rapporto tra madre e figlia paga un debito con una perdita tragica. Anche Almodóvar riconquista l’essenzialità dei classici il cui apice era stato Volver, prima che il regista, forse in crisi creativa, attingesse nuovamente al suo mondo barocco (La pelle che abito, Gli amanti passeggeri) decisamente, però, meno sincero, meno brillante e più artato nell’età matura. Julieta dura poco più di 90′ (partendo da ben tre racconti di Alice Munro pubblicati nella raccolta In fuga). Perché ad un regista classico non occorre di più per raccontare una storia di perdite e incontri, una storia che è la vita. E che, come la vita, può racchiudere il passaggio del tempo in un asciugamano sulla testa o il senso di colpa in due raccordi di sguardo impossibili tra la protagonista e i due uomini morti dopo averla incontrata.

4 – Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti

Occorre sgombrare il campo dagli equivoci. Quella di Mainetti non è un’americanata, ma un film molto italiano, di quelli che rielaborano un genere come facevamo una volta col western, l’horror e il polizi(ott)esco (cui, semmai, va ricollegato Jeeg Robot visto che Lo Zingaro, più che al Joker, si ispira a Vincenzo Moretto, detto Il Gobbo, personaggio interpretato da Tomas Milian). L’esordio alla regia di Mainetti è cinema bis vero e proprio (perché il bis ripropone, è vero, ma il pezzo migliore). Ne abbiamo parlato più approfonditamente qui

5 – The Neon Demon di NWR

Per chi scrive, il capolavoro di Refn è Bronson e mentre ci si agitava per la bellezza di Drive, sempre chi scrive lo trovava un esercizio di stile un po’ vuoto e leggermente (solo leggermente) meglio gli pareva Solo Dio perdona. Proprio ora, col suo film (degli ultimi tre) apparentemente più debitore di certa vacua estetica glamour heighties, tra Miami Vice e Tony Scott, che Refn sembra avere qualcosa da dire oltre l’ineccepibile forma. Scavando tra i soliti numerosi riferimenti (Suspiria e Inferno, per sua stessa ammissione, ma diremmo pure Tenebre, del nostro Dario Argento; Cat People di Schrader non solo per l’apparizione del puma, ma anche per l’apocalittico scenario sul quale scorrono i titoli di coda; Jean Rollin per non parlare del nome dell’agente che introduce Jesse nel mondo della moda ovvero Roberta Hoffman, Hoffman come E.T.A. autore, tra le altre cose, dei Racconti notturni in cui figura Der Sandmann, novella ispiratrice sia di Eva Futura che del robot di Metropolis ed analizzata da Freud nel suo Das Unheimliche, non a caso Jesse non ha/è casa, potrebbe essere un fantasma gotico per quanto, sul trampolino, appaia sospesa nell’aria) in The Neon Demon si affronta un tema per nulla fatuo a dispetto del mondo che descrive. Lo specchio è sempre delle (mie/tue/sue) brame, ma non gli si chiede più la verità e quindi attraversarlo significa attraversarsi, ferirsi (una scheggia di uno specchio lacera la mano della protagonista). La bellezza è tutto, come sostiene Alessandro Nivola (non accreditato) nella discussione nel diner e, sebbene vada via offeso, il giovane fotografo ha ragione a dire che conta essere belli dentro tanto che le tre streghe (Tre madri, ancora Argento) anche un po contesse Bàthory cannibalizzano la giovane modella ovvero il demone del titolo, demone nel senso di ossessione: essere bella senza (foto)ritocco. C’è chi la rigetta, chi si rigenera rompendo le acque come in una anomala partenogenesi mammifera (o allontanando lo spettro della menopausa con un copioso ciclo “lunare”) e chi la assimila (ne mangia l’anima/occhio, cosa che fa – Fassbinder insegna – la paura). Fatto sta che per un “mi piace” in più (specie quando sembrerebbe per noi tardi) uccideremmo. Un approfondimento qui

6 – The Assassin di Hou Hsiao-hsien

Yianning (in nero) e la monaca sua insegnante Jia Xin (in bianco), nella prima inquadratura di The Assassin, rappresentano un po’ il concetto del Tai: lo yin e lo yang. Ma nel mondo, pare dire Hou Hsiao-hsien, non è tutto o bianco o nero, c’è il colore e nel colore i contorni si fanno meno netti. Negli interni la visione della ritualità/teatralità viene continuamente frustrata dall’erezione di una quarta parete diegetica, tendaggi o vapori, mentre in esterni è il linguaggio del cinema (campi lunghi, montaggio improvvisamente e brevemente concitato) ad impedire di saperne di più. In fondo, ciò che conta è che il mondo del wuxiapian, così nettamente diviso tra buoni e cattivi, sia improvvisamente attraversato da dubbi dell’uomo moderno. I duelli finiscono con i due contendenti che prendono strade diverse. La nebbia non permette più di distinguere il bianco dal nero. Capolavoro iconoclasta di un regista settantenne (vincitore nel 1989 vinse il Leone d’oro Venezia con il più classico, e più anodino, Città dolente), The Assassin è una galleria di ipnotici tableaux che provocano una “sindrome di Stendhal” cinematografica.

7 – Zootropolis di Byron Howard e Rich Moore

Stavolta l’antropomorfismo non serve solo alla traslazione tipica dei contes moraux, delle favole di Esopo, ma ad un discorso più complesso sulla natura e sulla possibilità di sfuggirle. L’ambiente determina ciò che siamo ed è possibile che una coniglietta sia coraggiosa, un bradipo ami la velocità, un piccolo roditore sia un boss ed una volpe…beh sì che una volpe sia una volpe, ma solo perché arresasi a chi le diceva che non poteva essere altro. Se Billy Wilder avesse mai diretto un film d’animazione, probabilmente sarebbe stato Zootropolisbuddy movie, sophisticated e screwball insieme e, last but not least, noir impeccabile con la dark lady che non ti aspetti. 

8 – Ma Loute di Bruno Dumont

Con P’tit Quinquin abbiamo scoperto che il nichilista Bruno Dumont ha anche un senso dell’umorismo. Che questa cosa non venga presa come un rammollimento, perché in realtà Dumont conserva uno sguardo disilluso sulla società occidentale. Ma Loute fa ridere molto senza che questo intacchi il discorso politico che vi è sotteso. Le derive antropofaghe della lotta di classe (ci viene in mente il Paul Bartel di Mangia il ricco) sono accompagnate da figure e gag che paiono uscire da un film di Jacques Tati. Ma c’è di più. Ma Loute è anche un autocritico attacco al cinema borghese, finto quanto lo è la borghesia, ipocrita quando finge di ammirare il proletariato (l’insulso e artato apprezzamento per la bellezza di un marinaio, tutt’altro che apollineo) ed è per questo che al solito cast di non professionisti, stavolta Dumont affianca un trio di star quali Fabrice Luchini, Valeria Bruni Tedeschi e Juliette Binoche cui, però, chiede di esagerare il gesto attoriale, di essere sopra le righe, di essere attori finti che recitano borghesi finti.

9 – Il figlio di Saul di László Nemes

C’è una scena emblematica in Il figlio di Saul: quella in cui i prigionieri provano, con uno stratagemma, a scattare una foto dello sterminio per poi provare a farla uscire dal lager. C’è troppo fumo, ma, una volta puntato l’obiettivo, questo pare diradarsi. Sull’Olocausto e sull’impossibilità di rappresentare l’orrore che fu, si è detto molto, dalla stigmatizzazione di Jacques Rivette del travelling finale di Kapò per il quale sosteneva, con riferimento al regista Gillo Pontecorvo, “cet homme n’a droit qu’au plus profond mépris” al caustico calembour di David MametThe Shoah Must Go On“. László Nemes, conscio dell’ambigua dialettica tra orrore della realtà storica ed estetizzazione della sua rappresentazione, fa una scelta radicale, di forma e di formato. Il 4:3, il formato migliore per i PP, ed una mdp incollata addosso al protagonista Saul. Nessun fumo, spettacolarizzante, negli occhi, ma un unico obiettivo, un unico corpo da seguire, un’unica realtà da documentare, un’unica ossessione da soddisfare: quella di dare degna sepoltura ai morti.

10 – Elle di Paul Verhoeven

Elle è la risposta di Verhoeven a chi, fin dai tempi di Basic Instinct e Showgirls, gli ha mosso improvvidamente accuse di misoginìa. Elle è pronome femminile. Ed è palindromo. Resta Elle da qualsiasi punto di vista lo si legga. Le maschere (di mariti fedeli, di padri contro l’evidenza, di cattolici ferventi) le portano gli uomini, le donne (da Michèle, che attraversa, sgradevolmente imperturbabile, ogni accadimento anche il più traumatico, a Anna, nome palindromo anch’esso, fino a Rebecca tetragona per motivi di fede) no e se superano l’ipocrisia della società occidentale che, in fondo, per loro prediligerebbe la sottomissione (più subdola, meno ostentata di quella del mondo arabo), non possono che scegliere l’indipendenza. Tanto, qualunque “direzione” prendano saranno sé stesse.

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