Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura
o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti.
(art. 5 Dichiarazione Universale dei Diritti Umani)
All’indomani della sentenza di condanna del tribunale di Strasburgo, l’Italia ha scoperto di non avere una legislazione sulla tortura. Al netto di considerazioni di pancia, di quelle da indignados per intenderci, si diceva qui a bottega che la cosa potrebbe non essere interpretata in modo negativo, perché una nazione che non concepisca simile aberrazione non ne prevederà neanche le conseguenze. I fatti, tuttavia, dimostrano che, invece, alla tortura si è fatto ricorso eccome, e non certo dal G8 di Genova.
Il caso dell’anarchico Pinelli, tanto per raccontare di un periodo, quello degli anni di piombo, in cui il ricorso alla tortura da parte degli organi di polizia è ben più che un sospetto.
La tortura è strettamente legata ad una condizione di sopraffazione e, di conseguenza, non può prescindere da due attanti: il detentore del potere, il carnefice, e la vittima. Dopo l’11 settembre 2001 (quindi dopo i fatti della Diaz) la tortura ha trovato nuova linfa. E inevitabilmente ha invaso l’immaginario audiovisivo. Basti pensare a serie come 24, che fa della tortura quasi una presenza costante di sceneggiatura (quasi una nuova tappa obbligata del vogleriano “viaggio dell’eroe”), o a quanto subito da Theon Greyjoy, ad opera di Ramsay Snow, in Game of Thrones, per non parlare del cambiamento, proprio a seguito di tortura, di Nicholas Brody in Homeland o dell’uso particolare che si fa del cucchiaio in Utopia.
Vi proponiamo 10 film che affrontano, più o meno latamente, il tema della tortura.
1 – Salò, o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini
Come non cominciare dal film, l’ultimo (maledetto) di Pier Paolo Pasolini, che metaforizza la tortura come pratica grazie alla quale il “potere”, ogni “potere”, si afferma autoreferenzialmente, ma senza sporcarsi le mani, anzi tenendosi a distanza (i quattro Signori osservano i supplizi finali al binocolo), mentre l’arte non può restare indifferente (e la pianista si suicida)? Un film che mette a dura prova la pulsione scopica dello spettatore, rivelandosi insostenibile quasi (se non) quanto la tortura stessa.
2 – Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri
A differenza dell’opera di Pasolini che guarda al fascismo e a ogni dittatura, il film di Petri si fa sì metafora, ma del presente (il film uscì a gennaio del 1970, a ridosso della strage di Piazza Fontana del dicembre 1969) con un parallelo che è pura coincidenza (o straordinaria preveggenza di autori che sapevano leggere il tempo) tra il protagonista e il commissario Calabresi e l’anarchico Antonio Pace e Pinelli. Prevale, comunque, il discorso sul potere che prevarica anche oltre la sua stessa volontà perché è il sistema a garantirne il perpetuarsi. Vinse l’Oscar come miglior film straniero nel 1971.
3 – Complici del silenzio di Stefano Incerti
Un po’ come succede a Enrico Loverso in Lamerica di Gianni Amelio (si ritrova a tornare in Italia su un barcone di immigrati albanesi), anche al giornalista Maurizio Gallo, protagonista del quinto lungometraggio di finzione di Stefano Incerti, capita di provare sulla sua pelle quanto raccontato solo dalle cronache (e neanche tanto ufficiali, visto che, all’epoca i Mondiali di calcio si prendevano tutte le prime pagine e cronisti come Gianni Minà venivano espulsi dal paese perché facevano domande scomode) ovvero, in questo caso, le torture della polizia durante la dittatura di Videla (1976-1983).
Un occhio che da esterno si fa interno fa sì che un racconto passi dall’oggettivo al soggettivo, dove soggettivo non sta per parziale, ma per maggiormente empatico. Sull’argomento consigliamo anche La notte delle matite spezzate di Héctor Olivera, Garage Olimpo di Marco Bechis e Cronaca di una fuga – Buenos Aires 1977 di Israel Adrián Caetano.
4 – Road to Guantanamo di Michael Winterbottom
Il Vanzina dei festival, Michael Winterbottom, ha, per un certo periodo, cavalcato le onde emotive delle cronache di guerra realizzando instant movie – specchietto per le allodole delle giurie dei concorsi che, infatti, in questo caso gli assegnarono il premio per la regia a Berlino 2006 (Benvenuti a Sarajevo fu selezionato a Cannes 1997 mentre Cose dell’altro mondo vinse l’Orso d’oro a Berlino 2003).
Cinematograficamente, Road to Guantanamo è operazione populista che non dice nulla che non fosse già noto e lo fa con una fastidiosa commistione tra fiction e documentario (quasi ad attestare la veridicità dei fatti), ma quanto dice è importante. Ancora oggi.
5 – Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow
Come è accaduto all’ultimo Eastwood, quello di American Sniper, in merito alla questione “guerra” in Iraq, anche alla Bigelow venne contestato di essere favorevole alla tortura. Questo non solo perché le torture inflitte dalla CIA, per ottenere informazioni dai terroristi di Al Quaeda, vengono mostrate in modo esplicito (e, per alcuni, compiaciuto), ma soprattutto perché viene sottolineato il passaggio storico dalla presidenza Bush a quella Obama (che bocciò il ricorso alla tortura) come un momento negativo per gli agenti dell’Intelligence. Siamo alle solite: il o un punto di vista narrato da un autore viene, comunque e sempre, confuso col suo punto di vista. Siamo certi che per gli agenti della CIA la tortura era un rimedio efficace per strappare informazioni vitali, così come siamo sicuri che Chris Kyle (il cecchino di Eastwood) non avesse dubbi sul suo essere “cane da pastore” di un intero paese. Ciò non significa che i cantori di questi personaggi ne condividano le idee, nonostante le mai celate simpatie repubblicane di entrambi i registi.
6 – Martyrs di Pascal Laugier
Una delle conseguenze del “post Guantanamo Bay” è stata senz’altro il proliferare del torture porn come sottogenere dell’horror. Non si contano le pellicole ascrivibili ad esso (la saga di Saw, Hostel ed i francesi Frontiers e À l’interieur), ma Martyrs fa di più. Ricollega la tortura al martirio (ed in questo senso, sostiene che la prima tortura è stata quella di Cristo, non a caso il The Passion di Mel Gibson, probabilmente, non sarebbe stato concepibile prima del 2001) ed alla trasfigurazione.
Siamo, sia pur nel genere, in zona capolavoro.
7 – Five Fingers – Gioco mortale di Laurence Malkin
Una sorta di kammerspiele, quasi un mash-up tra un torture porn e Gli insospettabili di Joseph L. Mankiewicz, con continui twist e ribaltamenti di prospettiva. Forse involontariamente, ma è emblematico di come i ruoli di vittima e carnefice non siano, in certe circostanze, così definiti e distinguibili.
8 – Il maratoneta di John Schlesinger
C’è poco da fare: prima delle Twin Towers, a praticare le torture nei film non potevano che essere ex nazisti come il dott. Christian Szell di Il maratoneta (e quella a Babe Levy è particolarmente spaventosa, specie per chi si sia seduto almeno una volta sulla sedia di un dentista). Dopo, anche Le Chiffre può permettersi di infliggere un supplizio (particolarmente sadiano, tra le altre cose) a James Bond in Casino Royale.
9 – Unthinkable di Gregor Jordan
Unthinkable è un film insostenibile. E non solo visivamente (ché non si risparmia niente del repertorio del torture porn), ma anche moralmente. Vi pone di fronte ad un quesito etico fondamentale: può esistere la tortura a fin di bene? (un po’ il quesito di Zero Dark Thirty) Ed usa il thriller, con tanto di twist finale, come strumento per scardinare il vostro progressismo. Non dà risposte. Ve le date voi. Ma ne avete vergogna.
10 – Prisoners di Denis Villeneuve
Prisoners è un thriller, certo, ma è soprattutto il racconto allegorico di un’America che non sa più proteggere neanche se stessa e della frustrazione che ne deriva. Frustrazione che conduce alla paranoia ed alla disumanizzazione compresa quella della tortura. I “prigionieri” del titolo sono un po’ tutti i personaggi. Ognuno ha la sua gabbia, ognuno ha il suo tormento, ognuno ha il suo supplizio interiore. Che una fotografia così lucida dell’America attuale arrivi da un regista canadese fa sorridere. Ma anche no.