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Viaggio
a Kandahar
(Iran 2001) di Mohsen Makhmalbaf con
Niloufar Pazira Hassan Tantai Sadou Teymouri
Sulla bizzarra circostanza
di un film che involontariamente può contare sul più imponente
lancio pubblicitario della storia del cinema è meglio sorvolare
visti i tempi. Detto questo, Viaggio a Kandahar è
un'esperienza che scuote e commuove, che indigna e costringe a riflettere
(almeno per chi ha deciso di continuare a farlo). Parlare del film in
questo caso sembra davvero esercizio sterile. Di fronte alle mine sotto
forma di bambole che violano nel modo più vigliacco l'ingenuità
infantile; allo sguardo di bambini che scambiano la macchina da presa
per un' arma che può falciarli da un momento all'altro, alla desolazione
di una terra sfiacchita dal sole e che nessuna ombra può consolare;
al deserto dei sentimenti che costringe l'uomo contro l'uomo; alle donne
cui non è concesso il diritto allo sguardo; di fronte all'Afghanistan
di oggi, insomma, non si può che dimenticare il film e riflettere
sul mondo che abbiamo costruito. Viaggio a Kandahar è
uno di quei film intensi e straordinari che hanno il coraggio di "riflettere"
e riprendere il mondo quale è, e non la sua rappresentazione edulcorata
dal sistema della comunicazione di massa. Ogni inquadratura è come
una parola inventata per la prima volta ad indicare una realtà
che la ragione umana stenta a comprendere fino a dare una forma all'inesprimibile,
alla perdita definitiva di ogni speranza. In uno dei passaggi più
toccanti del film la protagonista afferma la sua diffidenza verso il sole,
un sole che, semplicemente illuminando, dà un'illusione di speranza.
E la speranza per chi dispera della sua stessa vita non è nient'altro
che un sadico accanimento. Lo sguardo ferito da visioni inumane è
meglio nasconderlo ormai nell'oscurità del burqa. Considerando
che si parla del mondo che gli uomini, compresi quelli"civili",
hanno costruito, se ne consiglia caldamente la visione ai "bombardieri".
(G.A.)
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