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Le valigie di Tulse Luper - La storia di Moab
(Gran Bretagna / Italia / Lussemburgo / Olanda / Russia / Spagna / Ungheria
2003) di Peter Greenaway, con JJ Feild, Valentina Cervi, Drew Mulligan,
Nigel Terry, Raymond J. Barry, Caroline Dhavernas, Deborah Harry, Steven
Mackintosh, Jordi Mollà, Kevin Tighe, Scot Williams, Yorick van
Wageningen, Jack Wouterse, Tanya Moodie, Victoria Abril, Kathy Bates ,
Michèle Bernier, Tom Bower, Roberto Citran, Anna Galiena, Remo
Girone, Francesco Guzzo, William Hurt, Don Johnson, Keram Malicki-Sánchez,
Cristina Moglia, Rossy de Palma, Amanda Plummer, Franka Potente, Molly
Ringwald, Isabella Rossellini, Francesco Salvi, Sting, Barbara Tarbuck,
Naím Thomas, Ana Torrent, Madonna, Leslie Woodhall
Greenaway è coerente nel suo rigetto
della linearità. Ritroviamo qui i sui temi e delle sue ossessioni.
Ma parlare di ossessione è probabilmente fuori luogo, suggerendo
la parola qualcosa di istintivo ed innato. Le corrispondenze numeriche,
lacqua, la ricorrenza di nomi e personaggi, la costruzione borgesiana
di biografie, la splendida costruzione fotografica, la ripetizione, frammentazione,
elencazione, compenetrazione di immagini nelle immagini e nella musica,
insomma il cinema di Greenaway non è certo uno sfogo istintivo,
bensì un progetto chiaro che non ha bisogno di codifica scritta
e dogmatica ma il cui fine è individuato e la cui struttura è
solida. Il regista rifiuta lo sviluppo lineare e classico del plot, da
sempre da lui considerato primitivo surrogato del romanzo. Estremamente
e parallelamente in questo film è rifiutato lo sviluppo lineare
dellimmagine, e da qui libridazione con altro cinema (fra
cui il proprio) e con la pittura. Ma il tutto non si risolve in videoarte
puramente concettuale: la narrazione è tuttaltro che assente,
è parcellizzata e folle nel perseguire una consapevolmente impossibile
completezza. Ogni frazione di racconto è parte di altre storie
che vogliono un loro spazio, ogni oggetto racchiude un rimando ad altri
concetti, suoni, aneddoti, curiosità documentaristiche, altri oggetti:
associazioni di idee possibili ed inevitabilmente parziali, spunti da
cui far germinare altre associazioni personali. Così limmagine
non può scegliere un percorso univoco per la narrazione, ma ne
propone molteplici contemporaneamente e contemporaneamente propone più
narrazioni. Laspirazione del regista è la creazione di unenciclopedia
che sia esaustiva del mondo da lui creato, in realtà falsa aspirazione.
Perché nonostante il suo annunciare periodicamente la morte del
cinema e nonostante le critiche che lo vedono addirittura estraneo allo
stesso, Greenaway fa un uso personale e ridondante di tecniche
espressive che sono prettamente cinematografiche, è legato al suo
mezzo che per natura rifiuta completezza ed oggettività. Così
ironicamente nella costruzione del suo microcosmo propone più di
una delle infinite soluzioni possibili, più di un punto di vista
nel mostrare una scena, più di un attore per lo stesso ruolo. Anche
esalta quella che è una delle caratteristiche essenziali del cinema:
la ripetizione; a volte ossessiva di immagini e suoni, senza variazioni,
rivolta allapprofondimento, alla costruzione di complessità.
Non è solo limmagine ferma e la sua costruzione, pure importante
tanto più in un cinema fotografico e pittorico come quello di Greenaway,
ad avere risalto, ma il movimento in sé, il breve movimento che
nella sua ripetizione elabora il suo significato, perde la sua natura
più semplice ed immediata per trovarne altra nella destrutturazione
e stratificazione, mette in ombra il suo carattere denotativo per evidenziarsi
come movimento puro. Le vicende attraverso il ventesimo secolo di Tulse
Luper, alter ego del regista già in altre sue opere, protagonista
con interessi corrispondenti a quelli del suo creatore, le sue tappe contrassegnate
da numerose ed insolite reclusioni.
Il prigioniero ideale ed il carceriere ideale sono intercambiabili.
(Giuseppe Marino)
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